Oggi mi guardo allo specchio e mi chiedo come sia possibile che la mia vita sia cambiata così tanto. Un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che avrei lasciato Luca, mi sarei messa a ridere. Mio marito, con cui ho condiviso dodici anni, l’uomo che adoravo. Quello che tutte le mie amiche dicevano: «Sei stata fortunata». Per me era tutto. Premuroso, affidabile, un padre presente e dolce. Vivevamo come in una favola. Ora, invece, vivo con mia sorella in provincia di Milano, con i miei due figli e la consapevolezza che non c’era altra via per sopravvivere.
Quando ci siamo sposati, era tutto normale: abbiamo cominciato dal basso, comprato un bilocale, poi Luca ha venduto e abbiamo preso un mutuo per un trilocale spazioso. Abbiamo fatto i lavori, comprato i mobili, sistemato tutto. Due figli: Matteo, nove anni, e Lorenzo, quattro. Io lavoravo in una scuola d’arte per bambini, tenevo corsi—non per i soldi, ma per passione. Luca portava a casa uno stipendio sicuro, era l’anima della famiglia. Viaggiavamo, organizzavamo feste per i bambini, eravamo davvero felici.
Poi, all’improvviso, tutto è crollato.
Una chiamata dal lavoro: Luca è svenuto in ufficio. Ambulanza, ospedale, esami… Diagnosi: tumore benigno al cervello. Ma trascurato, cresciuto troppo. I medici non hanno potuto operare in modo semplice, è servito un intervento neurochirurgico complesso.
È sopravvissuto. I dottori dicevano che era fortunato. Ma il mio Luca non c’era più. Dopo l’operazione, era un’altra persona. Il volto contratto per la paralisi di un nervo, problemi di udito. Ma il peggio era dentro. Tornato a casa, è cominciato l’inferno.
Ha lasciato il lavoro. Disse solo:
— Ho fatto la mia parte. Ora tocca a te mantenerci.
Ho preso un altro lavoro. Sfinita, senza fiato. Lui? Passava le giornate sul divano, tra telefono e televisione. Nessun aiuto, nessuna iniziativa. Solo rimproveri. E urla. Tantissime urla.
Sfogava la rabbia su tutti: su di me, sui bambini. Persino su Lorenzo, che ha solo quattro anni. Ci accusava della sua malattia. Diceva che lo avevamo «rovinato». Che eravamo noi a averlo «spezzato».
Poi sono arrivate le stranezze. Passava ore a guardare programmi sulla fine del mondo, si preparava a «catastrofi imminenti», accumulava scorte di sale, fiammiferi, scatolette. Rifiutava le medicine, rifiutava i controlli. Io lo supplicavo—lui gridava che volevo «rinchiuderlo in manicomio», che avevo «amanti» e che «tutta Milano mi piangeva dietro».
Vivevo come in un incubo. La casa era un campo di battaglia, i bambini avevano paura del loro stesso padre. Non potevo lasciarli lì. Così me ne sono andata. Li ho presi e siamo scappati da mia sorella.
Il divorzio era inevitabile. Non potevo più vivNon potevo più vivere con un uomo che, invece di combattere, aveva deciso di spegnere la luce su tutto ciò che eravamo stati.