Dove cercare aiuto quando tua figlia ti disprezza?

“Dove posso lamentarmi se mia figlia mi odia?”

— Bisogna che mi lamenti di mia figlia da qualche parte — borbottava Carla, sdraiata sul divano sformato, coprendosi il viso con una mano — che qualcuno le spieghi che la madre va rispettata. Qualcuno. Chiunque…

Nella stanza regnava una penombra grigia. L’odore di vino scaduto, piatti sporchi e aria pesante si era impregnato nelle carte da parati e nelle pareti. Carla non riusciva ad alzarsi — la testa le ronzava come se ci fosse un treno bloccato nel cranio, e ogni sua fermata era accompagnata da nausea. Dove si era addormentata? Quando? Non ricordava. Così come non ricordava a che punto della serata precedente avesse afferrato la bottiglia, né dove fossero finite le ultime ore.

Era di nuovo sola.

Silvia odiava gli ubriachi.

Non era una semplice avversione. Era odio, profondo e antico come le radici di un vecchio albero, penetrato in ogni sua cellula. Fin da bambina, da quelle serate in cui in casa succedeva qualcosa di simile all’inferno: la madre, barcollando, entrava nell’appartamento, sbattendo la porta, mancando l’interruttore, aggrappandosi alle pareti. A volte cadeva. Altre volte dormiva sull’ingresso, senza arrivare al letto.

Una volta Silvia trovò Carla a faccia in giù nel fango, davanti al portone. Aveva sette anni. Sette anni — e già sapeva cosa fosse la vergogna. Il tanfo di alcol, gli sguardi dei vicini, le risate dei compagni:
— Silvia, tua madre oggi è nella fogna o sotto il tavolo?

Aveva imparato a trattenere le lacrime. A nascondere i piatti rotti, a raccogliere le bottiglie vuote in sacchi e portarle alla spazzatura di nascosto. Lavava i pavimenti quando la madre non riusciva nemmeno ad alzarsi. Stirava, puliva, cucinava — perché altrimenti vivere era impossibile. A dieci anni sapeva già come togliere una macchia di vino dal tappeto e come ripulire il vomito dal muro.

Ogni sera era una prova. La madre parlava da sola, urlava, piangeva, lanciava un bicchiere contro il muro, cadeva. E Silvia restava al buio, abbracciata a un cuscino, immobile. Senza respirare. In attesa. Solo per non provocare, non irritare, non attirare l’attenzione. Perché sua madre ubriaca poteva essere imprevedibile. A volte piangeva, altre urlava, e altre ancora — la picchiava.

Silvia crebbe. Scappò appena poté. Si iscrisse all’università, lavorava la sera per affittare una stanza. Poi incontrò Matteo. Tranquillo, affidabile. Si sposarono. Nacque un figlio — Luca. E Silvia fece un giuramento:
— Mio figlio non mi vedrà mai ubriaca. Non avrà paura dei passi nel corridoio. Non dovrà pulire il pavimento al posto mio.

Lo proteggeva come poteva. Silenzio, calore, pane fatto in casa, fiabe la sera e lenzuola pulite profumate di lavanda. Tutto ciò che lei non aveva avuto.

Con la madre non aveva quasi contatti. Qualche raro colloquio, sempre freddo. E solo quando Carla attraversava un periodo “lucido”. Non voleva farla entrare nella sua vita. Neanche per un passo.

Ma Carla — non capiva.

Ogni mattina iniziava con il mal di testa e bestemmie. Borbottava, imprecava, inciampava per casa. A volte si svegliava sul pavimento, tra cicche, posacenere e piatti con grasso rappreso. Altre — sul divano, senza ricordare come ci fosse finita.

Altre volte — in lacrime, con rancore:
— Ecco l’ingrata! Io l’ho messa al mondo, ho vegliato su di lei, e lei scappa come un’ultima topa. Né una telefonata, né un pensiero. Eppure è sangue del mio sangue… Mia figlia.

A volte, furiosa, lanciava un bicchiere contro il muro e urlava a squarciagola:
— Parassita! Crede di poter cancellare la madre come un errore! Quando morirò, non lo saprà nemmeno!

Altre volte — piangeva. Silenziosamente. Amaramente. Perché capiva. Capiva di aver distrutto tutto da sola. Che ogni “solo un altro bicchiere” era stato scambiato con l’affetto di sua figlia. Che aveva barattato l’amore per la bottiglia. E sapeva che ormai era tardi.

A volte Carla cercava di ricordare quando tutto era andato storto. Quale fosse la svolta sbagliata. Dopo la morte del marito? Dopo aver perso il lavoro? O prima — quando aveva deciso che un bicchiere la sera “per rilassarsi” fosse normale?

Adesso viveva sola. Senza famiglia. Senza il nipote. Con una bottiglia e vecchie fotografie.

Apreva l’album, ricoperto da strati di polvere come fossero anni ammassati. Guardava Silvia — quella piccola, col fiocco, con gli occhi pieni di fiducia. Poi se stessa. Più giovane. Prima che tutto precipitasse.

E nei suoi occhi affiorava qualcosa simile alla paura.
— Che cosa ho fatto?…

Ma più spesso — era rabbia.
— È mia figlia. Perché non si preoccupa di me?! Perché sono sola, mentre lei vive come se niente fosse?!

E allora Carla afferrava il telefono per chiamare “qualche autorità” e lamentarsi:
— Devono obbligarla a rispettare sua madre! Ci sarà pure una legge! Sono sempre sua madre!

Poi… riattaccava. Scendeva dal divano. E andava al comodino, dove era rimasta una bottiglia mezza vuota. Perché era più facile dimenticare che affrontare la verità.

Silvia sapeva che sua madre era sola. E che beveva. E che un giorno poteva morire in quell’appartamento vuoto, senza che nessuno lo scoprisse. Ma il suo cuore ormai era ridotto in cenere. Solo polvere fine. Quel dolore che aveva portato dentro per tutta la vita le aveva insegnato una cosa: salva prima te stessa. E se qualcuno ti trascina giù — lascialo andare. Anche se è tua madre.

Perché a volte il rispetto non è qualcosa che puoi esigere. A volte devi meritartelo. O non perderlo. Ma se lo perdi — non puoi più riaverlo. Neanche se lo vuoi con tutta l’anima.

E non c’è più nessuno a cui lamentarsi.
Nulla e nessuno.
Perché hai distrutto tutto da solo. Con le tue mani. Con le tue bottiglie. Con il tuo silenzio, quando avresti dovuto dire: perdonami…

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