Erano già passati nove mesi dall’ultima volta che Elettra aveva avuto notizie di suo figlio, Davide. All’inizio aveva contato i giorni, segnandoli sul vecchio calendario appeso in cucina. Poi aveva iniziato a contare le settimane. Infine, aveva smesso del tutto, perché ogni nuovo giorno senza una lettera le feriva il cuore come il vento gelido di dicembre. Continuava comunque a controllare la cassetta della posta—la mattina, appena l’alba sfiorava le finestre, e la sera, quando le ombre si allungavano nel suo piccolo appartamento alla periferia di un paesino in provincia di Bergamo. La postina, Giulia, ormai non la guardava nemmeno più, passando oltre in silenzio, come se il suo tacere potesse alleviare il vuoto. Ma la cassetta rimaneva muta. Ancora e ancora.
Davide era partito per il Canada quattro anni prima. Lavoro, aveva detto. Prometteva che sarebbe tornato presto, che avrebbe guadagnato, sistemato tutto, aiutato la famiglia. Era partito con una valigia leggera, un sorriso e gli occhi pieni di sogni. I primi mesi scriveva spesso—messaggi brevi, chiamate la sera. Poi sempre meno. Fino al silenzio. Come se qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, avesse cancellato il suo passato, cancellando la casa, la strada, sua madre.
Elettra si aggrappava alle scuse come a un salvagente. È occupato, imparando la lingua, costruendosi una vita nuova. Lo ripeteva mentre cucinava, per non urlare dal dolore, per soffocare la paura che Davide fosse sparito per sempre. Nella sua mente riaffioravano i suoi passi da bambino nel corridoio, le sue risate quando tornava da fuori tutto sporco e gridava: «Mamma, guarda cosa ho trovato!». Ora, intorno a lei, c’era solo silenzio—pesante come la neve che copriva il loro paesino.
Le scuse si erano esaurite. Restava solo il vuoto. Freddo, impenetrabile, che cresceva tra loro ogni giorno come un muro di ghiaccio, separando il passato dal presente.
Nel loro paese, madri come lei non erano poche. Donne i cui figli erano partiti, lasciando dietro di sé cassette vuote e parole non dette. Si riconoscevano negli sguardi—vivi, ma oscurati dalla malinconia. La vicina, Lucia, sussurrava: «Almeno è vivo, Elettra. Accontentati di questo». Lei annuiva, ma dentro di sé ribolliva la colpa. Non le bastava sapere che era vivo. Voleva sentire la sua voce, il suo «Come stai, mamma?»—non per i soldi o i regali, ma solo per sentire il cuore battere di nuovo regolare.
Viveva con poco. Un orto dietro casa, un gatto di nome Ciccio, una vecchia televisione che trasmetteva solo telenovelas. Il venerdì pulizie, il sabato mercato, dove i venditori la salutavano come un’amica di vecchia data, e la fruttivendola le chiedeva sempre: «Niente borsa di nuovo, Elettra?». Lavorava a mano. Prima aveva fatto i guanti per Davide, ricordando le sue mani larghe. Poi continuava così, accumulandoli nel cassetto, come se qualcuno potesse ancora venire a prenderne il calore. Cuciva cuscini per il gattile. Solo per non sentire le mani tremare dal vuoto. Solo perché il giorno non diventasse un abisso senza fine.
In un giorno umido di novembre, qualcuno bussò alla porta. Elettra pensò fosse la vicina—a chiedere farina o fiammiferi. O un corriere sbagliato. Aprì, e il mondo si fermò. Sulla soglia c’era un ragazzino di undici anni, con una giacca logora e uno zaino piccolo. Occhi grigi, attenti, con una luce dentro, come se sapesse già che la vita poteva risposare tutto.
«Sei Elettra?» chiese piano, la voce tremante, per il freddo o l’emozione.
«Sì…» sussurrò lei, il cuore stretto da un presentimento.
«Sono Matteo. La mamma ha detto che posso stare con te. Che qui, dalla nonna, è sempre sicuro».
Il mondo oscillò come un vecchio ponte nel vento. Elettra non capì subito. Notò solo le guance rosse del ragazzino per il freddo, il modo in cui si torceva la manica. Poi i suoi occhi. Esattamente come quelli di Davide da piccolo. Lo stesso sguardo diretto, la stessa quieta determinazione.
«Hai fame?» chiese, aggrappandosi alle parole per non cadere.
«Posso avere un tè? Con miele, se c’è» rispose, accennando un sorriso.
Entrò, posò lo zaino e si sedette. Tranquillo, come se l’avesse fatto mille volte. Si tolse le scarpe, piegò la sciarpa, lisciò i guanti. Elettra notò il maglione consumato, il nodo alle stringhe delle scarpe che si reggeva a stento.
Il telefono vibrò. Davide. Per la prima volta in un anno.
«Mamma, scusa, è stato tutto un casino. Richiamerò, ok?»
Riappese prima che potesse rispondere. Lei rimase immobile, fissando Matteo, che già accarezzava Ciccio, con delicatezza, come se avesse paura di spaventarlo.
«Posso dargli da mangiare?» chiese il bambino, guardando il gatto. «So come fare. A casa avevamo un gatto».
«Si chiama Ciccio» rispose lei, ancora incredula.
«Allora posso leggergli una storia? Io leggo sempre prima di dormire. La mamma dice che così i sogni sono belli».
All’inizio era un’ombra. Mangiava in silenzio, puliva da solo, dormiva aggrappato alla coperta, con la lucina accesa, come se il buio potesse portarselo via. Scriveva su un quaderno, disegnava, chiedeva permesso per tutto—prendere il pane, accendere la luce, uscire. Come se temesse di essere di troppo. Poi iniziò a sorridere. A chiedere altra minestra. A portare sassi, pigne, storie dei cani dei vicini. Una volta arrivò con un passero ferito avvolto nella sciarpa e lo nutrì con briciole di pane.
Elettra aveva paura di abituarsi. Ogni notte si diceva: «Se ne andrà presto». Ma ogni mattina si sorprendeva ad aspettare i suoi passi, le sue domande, le sue risate. Poi si arrese. Lui diventò il suo mattino, la sua sera, il suo senso, come una luce calda alla finestra.
Matteo rimase con lei quattro mesi. Davide chiamò tre volte. Breve, distante. Parla di lavoro, di problemi, che «è tutto complicato». Non una parola sul figlio. Non una parola su di lei. Solo: «Mamma, non chiedermi niente adesso».
Lei non chiese. Anche se le domande le bruciavano l’anima. Tacque. Per Matteo. Per la casa che si era riempita di nuovo della sua voce.
Quando partì, il paese era già stretto nel ghiaccio. Alla stazione la abbracciò così forte che sentì il suo cuore battere. Senza lacrime, senza parole, ma con una forza che sembrava dire che lasciarla era dolore. Lei non pianse. Gli accarezzò solo i capelli, come se non stesse salutando lui, ma una parte di sé che non sarebbe più tornata. Restò a guardare il treno finché non scomparve nella tormenta. Poi nel vuoto.
Dieci giorni dopo arrivò una lettera. Vera, di carta, con lettere traballanti. Matteo scriveva che stava bene, che le mancava, che la scuola era interessante e che Ciccio era il gatto più bello del mondo. «”E quel giorno, mentre rileggeva le sue parole, Elettra capì che forse non era Davide il figlio perduto, ma lei stessa, e che forse era arrivato il momento di smettere di aspettare.”