Dove nessuno si perde mai

È già passato un anno da quando Arturo ha smesso di scrivere. All’inizio, Eleonora Rinaldi contava i giorni, segnandoli sul vecchio calendario appeso in cucina. Poi ha cominciato a contare le settimane. E infine ha smesso del tutto, perché ogni giorno senza notizie le strappava il cuore come il vento gelido di gennaio. Continuava a controllare la cassetta delle lettere — al mattino, appena l’alba sfiorava le finestre, e la sera, quando le ombre invadevano il piccolo appartamento alla periferia di un paesino veneto. La postina, Luisa, ormai non alzava più lo sguardo passandole accanto, come se il suo silenzio potesse alleviare il vuoto. Ma la cassetta restava muta. Ancora e ancora.

Arturo era partito per il Canada cinque anni fa. Un contratto temporaneo. Aveva promesso che sarebbe tornato presto, che avrebbe messo da parte i soldi, sistemato le cose. Se n’era andato con una valigia leggera, un sorriso e gli occhi pieni di sogni. I primi mesi scriveva spesso — messaggi brevi, chiamate la sera. Poi sempre meno. E infine, il silenzio. Come se qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, avesse cancellato il suo passato, eliminando la casa, la strada, la madre.

Eleonora si aggrappava alle scuse come a un salvagente. È occupato. Sta imparando la lingua. Si sta costruendo una vita nuova. Lo ripeteva davanti ai fornelli, per non urlare dal dolore, per soffocare la paura che suo figlio fosse sparito per sempre. Nella sua memoria affioravano i suoi passi da bambino nel corridoio, le sue risate quando, sporco di fango, entrava di corsa gridando: “Mamma, guarda cosa ho trovato!” Ora, invece, c’era solo silenzio — pesante come la neve che seppelliva il loro paesino.

Le scuse si esaurirono. Restò solo il vuoto. Freddo, impenetrabile, che cresceva tra loro ogni giorno, come un muro di ghiaccio che separava il passato dal presente.

Nel loro paese, madri così ce n’erano tante. Donne i cui figli erano partiti, lasciando dietro di sé cassette vuote e parole mai dette. Si riconoscevano dallo sguardo — vivo, ma annebbiato dalla nostalgia. La vicina, Giovanna, sussurrava: “Almeno è vivo, Eleonora. Accontentati”. Lei annuiva, ma dentro la colpa si allargava. Non bastava sapere che era vivo. Voleva sentire la sua voce, il suo “Come stai, mamma?” — non per i soldi o i regali, ma perché il suo cuore tornasse a battere regolare.

Viveva con poco. Un orticello dietro casa, il gatto di nome Micio, una vecchia TV che trasmetteva infinite telenovele. Il venerdì pulizie, il sabato mercato, dove i venditori la salutavano come un’amica e la fruttivendola le chiedeva sempre: “Senza borsa anche oggi, signora Rinaldi?” Lavorava a maglia. All’inizio guanti per Arturo, ricordandogli le mani larghe. Poi solo per passare il tempo, accumulandoli nel cassetto, come se qualcuno potesse ancora prendere quel calore. Cuciva cuscini per il rifugio dei gatti. Pur di non lasciare che le mani tremassero per il vuoto. Pur di non cadere nell’abisso.

Un umido giorno di novembre, qualcuno suonò alla porta. Eleonora pensò fosse la vicina — a chiedere farina o fiammiferi. O un corriere sbagliato. Aprì e il mondo si fermò. Sulla soglia c’era un ragazzino di undici anni, con una giacca consunta e uno zaino piccolo. Occhi grigi, attenti, con una luce dentro, come se sapesse già che la vita può riservare di tutto.

“Lei è Eleonora Rinaldi?” chiese piano, la voce tremante, forse per il freddo, forse per l’emozione.

“Sì…” sussurrò lei, sentendo il cuore stringersi per un presentimento strano.

“Io sono Matteo. Mia mamma ha detto che posso stare da lei. Ha detto che qui, con la nonna, è sicuro.”

Il mondo oscillò, come un vecchio ponte sotto il vento. Eleonora non capiva subito cosa stesse succedendo. Notò solo le guance rosse per il gelo, le dita che stringevano il bordo della manica. E poi i suoi occhi. Identici a quelli di Arturo da bambino. Lo stesso sguardo diretto, la stessa quieta determinazione.

“Sei affamato?” chiese, aggrappandosi alle parole per non perdere l’equilibrio.

“Posso avere un tè? Con miele, se c’è,” rispose, con un mezzo sorriso.

Entrò, posò lo zaino e si sedette. Tranquillo, come se fosse già stato lì mille volte. Si tolse le scarpe, sistemò la sciarpa, lisciò i guanti. Eleonora notò il maglione sfilacciato, il nodo alle stringhe che si stava sciogliendo.

Il telefono vibrò. Arturo. Per la prima volta in un anno.

“Mamma, scusa com’è andata. Qui è… complicato. Ti richiamo, ok?”

Riattaccò senza aspettare una risposta. Lei rimase immobile, fissando Matteo, che già accarezzava Micio, delicato, come per non spaventarlo.

“Posso dargli da mangiare?” chiese, guardando il gatto. “So come fare. A casa avevamo un gatto.”

“Si chiama Micio,” rispose, ancora incredula che non fosse un sogno.

“Allora posso leggergli qualcosa? Io lo faccio sempre prima di dormire. Mamma dice che aiuta a fare sogni belli.”

All’inizio era come un’ombra. Mangiava in silenzio, sistemava tutto, dormiva aggrappato alla coperta con la lucina accesa, come se il buio potesse portarselo via. Scriveva sul quaderno, disegnava, chiedeva permesso per tutto — il pane, la luce, uscire. Come se temesse di essere di troppo. Poi cominciò a sorridere. A chiedere altra minestra. A portare pietre, pigne, storie dei cani dei vicini. Una volta arrivò con un passero ferito avvolto nella sciarpa e lo nutrì con briciole.

Eleonora aveva paura di affezionarsi. La sera si ripeteva: “Tornerà presto da sua madre.” Ma ogni mattina aspettava i suoi passi, le sue domande, le sue risate. Alla fine si arrese. Lui era diventato la sua luce, il suo rifugio, come un lumino acceso alla finestra.

Matteo restò da lei quattro mesi. Arturo chiamò tre volte. Brevi, fredde. Lavoro, problemi, “è complicato”. Niente del figlio. Niente di lei. Solo: “Mamma, non chiedere adesso.”

Lei non chiese. Nonostante le domande le bruciassero dentro. Tacque. Per Matteo. Per la casa che si era riempita di nuovo di vita.

Quando partì, l’inverno aveva già ghiacciato le strade. Alla stazione, la strinse così forte da sentire il suo cuore battere. Senza lacrime, senza parole, ma con una forza che faceva male. Lei non pianse. Solo gli accarezzò i capelli, come per dire addio a una parte di sé che non sarebbe tornata. Guardò il treno sparire nella neve. Poi nel vuoto.

Dieci giorni dopo arrivò una lettera. Vera, di carta, con lettere incerte. Matteo scriveva che stava bene, che sentiva la mancanza, che la scuola era interessante e che Micio era il gatto più bello del mondo. “Mi ascolta anche quando taccio,” scrisse. E in fondo, aggiunse:

“Ora so dove le persone non si perdono mai.”

REleonora sorrise tra le lacrime, accarezzando il filo di lana tra le dita, perché finalmente aveva capito che a volte si trova ciò che non si sapeva nemmeno di aver perduto.

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