Dove un tempo c’era la casa
Quando Elisa mise piede nel suo paesino natale dopo vent’anni, il primo che vide fu il vecchio Marcello, una volta postino, ora solo un anziano dagli occhi annebbiati. Era seduto su una panchina davanti a un negozio mezzo cadente, lo stesso dove un tempo la sera si radunava la vita: uomini che discutevano con una bottiglia in mano, ragazzini che correvano dietro a un pallone, donne che portavano pettegolezzi al posto delle notizie. Sulle sue ginocchia c’era una busta di plastica con la maniglia strappata — dentro, del pane, un barattolo di pomodori sott’aceto e un giornale sgualcito. Marcello sgranocchiava semi di girasole e sputava le bucce ai suoi piedi, strizzando gli occhi contro il pallido sole primaverile, come sorpreso che brillasse ancora in quell’angolo dimenticato dal mondo — persino da Dio.
La fissò a lungo. Senza stupore, senza gioia — come se guardasse attraverso di lei, verso i giorni in cui era partita, giovane e piena di rabbia.
«Elisa?» borbottò. «Allora sei viva?»
«Pensavi di no?» rispose lei con un sorriso amaro.
«Qui avevamo deciso: o sei a Milano, o sposata con un tedesco, o, Dio mi perdoni, sei già sottoterra…»
Lei non rispose. Solo annuì. Sì, era viva. Ma non più la stessa.
Dietro di lei c’era quella casa. Storta, grigia, con le pareti screpolate, la veranda marcia, il gradino dove un tempo la madre l’aspettava dopo il lavoro, e poi — solo silenzio. La casa sembrava più piccola dei ricordi. Stanca. Piega su se stessa. Come un vecchio dimenticato dai visitatori. Aspettava — non il perdono, non il ritorno — ma la fine. Tranquilla, discreta, come lo era stata la sua esistenza in quegli ultimi anni.
Quel giorno Elisa la girò intorno. Senza entrarci. Senza toccare nulla. La guardò come un vecchio taglio ormai rimarginato, ma che ancora prude. Dentro di lei tutto era teso come un filo sul punto di spezzarsi. Se avesse solo girato la maniglia della porta, tutto ciò che tratteneva dentro sarebbe potuto crollare.
Se n’era andata a diciannove anni. Dopo che la madre era morta e il padre aveva cominciato a bere così tanto che al mattino non ricordava nemmeno chi fosse. La chiamava con nomi stranieri. Le parlava come se non fosse sua figlia, ma un fantasma di sogni passati. La casa era diventata insopportabile. Come un cappotto troppo stretto — impossibile da indossare, ma troppo prezioso per buttarlo. Litigavano ogni giorno. Per niente, per il silenzio, per ogni piccola cosa. Lei urlava, lui lanciava tazze contro il muro. L’ultima cosa che le disse fu: «Non ho bisogno di te. Sparisci.» E lei sparì. Se ne andò in città. Poi più lontano. Prima in periferia, poi a Roma, poi semplicemente — lontano dal passato.
Lavorò dove poteva: cameriera, commessa, dattilografa, lavò scale, visse in stanze piene di odori altrui. Cucì, scrisse poesie — finché le parole smisero di salvarla. La vita scorreva come acqua in un tubo vecchio — arrugginita, rumorosa, a volte piena di muffa. Ma scorreva. E Elisa scorreva con essa.
Non scrisse a nessuno. Non chiamò. Non sapeva se il padre fosse ancora vivo. Finché un giorno non ricevette una telefonata: un uomo del comune le comunicò che era morto. Una settimana prima. Solo. Senza testimoni. I vicini se ne accorsero solo quando l’odore divenne insopportabile. Lo seppellirono a spese del municipio. Restava la casa.
E lei tornò. Senza capire perché. Per controllare? Per perdonare? Per chiudere un capitolo? O solo per assicurarsi che se ne fosse davvero andato.
Al terzo giorno entrò. Aprì la porta a fatica e inspirò l’odore — di muffa, di tabacco, di tempo fermo. Tutto era al suo posto. Il tavolo dove un tempo avevano usato la macchina per il pane. La poltrona dove lui sedeva. Il giornale sul davanzale. La tazza con la scritta «Migliore Papà» — assurda, amara, quasi una beffa. La casa taceva, ma le pareti sembravano sussurrare: «ti ricordi?»
Rimase in piedi in mezzo a quel silenzio, senza sapere perché fosse lì. Per perdonare? Per accertarsi? O solo per mettere un punto?
Per una settimana pulì. Tinteggiò la recinzione storta, rattoppò il tetto, strofinò le finestre fino a farle cigolare. Non perché volesse restare. Ma perché qualcuno doveva ricordare a quella casa che era ancora viva.
Il nono giorno ripartì. Niente oggetti, niente souvenir. Solo una fotografia in cui aveva otto anni, la madre ancora giovane, il padre che sorrideva. O fingeva di farlo. Ma erano lì — insieme. Mise la foto nel portafoglio. Non per rimpiangere. Ma per non dimenticare.
La casa rimase lì. Stanca, scrostata. Ma non vuota. Custodiva passi, voci, litigi, risate, il profumo della marmellata, le ombre delle notti e dei volti che non c’erano più. A volte il dolore non se ne va. Ma impari a conviverci.
A volte una casa smette di essere una ferita. Diventa terra. Quella stessa su cui un tempo hai imparato a camminare. E a cadere. E a rialzarti.
E questo basta, per ricominciare a vivere. Non da zero. Ma da ciò che è rimasto. Ed è diventato tuo. Per sempre.