Dove una volta c’era la casa
Quando Elena mise piede nel suo paesino dopo vent’anni, la prima persona che vide fu il vecchio Federico — un tempo postino, ora solo un anziano con lo sguardo annebbiato. Se ne stava seduto su una panchina davanti al negozio mezzo diroccato, lo stesso dove una volta la vita brulicava la sera: gli uomini discutevano davanti a una bottiglia, i ragazzi giocavano a pallone e le donne portavano pettegolezzi al posto delle notizie. Sulle sue ginocchia c’era un sacchetto di plastica con la maniglia strappatina: pane, una scatola di pomodori sotto sale e un giornale sgualcito. Federico sgranocchiava semi di girasole e sputava le bucce per terra, strizzando gli occhi contro il pallido sole primaverile, quasi stupito che splendesse ancora in questo angolo dimenticato da tutti — persino da Dio.
La fissò a lungo. Senza sorpresa, senza gioia — come se guardasse attraverso di lei, verso i giorni in cui era partita, giovane e piena di rabbia.
«Elena?» borbottò. «Allora sei viva, eh?»
«Pensavi di no?» rispose lei con una smorfia.
«Qui si diceva fossi finita chissà dove: nella grande città, sposata a un tedesco o — Dio ci perdoni — sotto terra…»
Elena non rispose. Solo un cenno del capo. Sì, viva. Ma non più la stessa.
Dietro di lei c’era la casa. Storta, grigia, con le pareti screpolate, la veranda marcia e il portico dove una volta la madre l’aspettava quando tornava dal lavoro, e poi… dove il silenzio aveva preso il posto delle parole. Sembrava più piccola dei suoi ricordi. Stanca. Curva come un vecchio dimenticato. Aspettava, non il perdono, non il ritorno, ma la fine. Tranquilla e discreta, come gli ultimi anni della sua esistenza.
Quel giorno, Elena la girò intorno. Non un passo dentro. Non un tocco. La guardava come si guarda una cicatrice che prudica ancora. Dentro di lei tutto era teso come un filo sul punto di spezzarsi. Se solo avesse aperto quella porta, tutto ciò che tratteneva sarebbe crollato.
Se n’era andata a diciannove anni. Dopo che la madre era morta e il padre aveva cominciato a bere così tanto che al mattino non ricordava più chi fosse. La chiamava con altri nomi. Le parlava come se fosse un fantasma di vecchi sogni. La casa era diventata insopportabile. Come un cappotto due taglie più piccolo — impossibile da indossare, ma troppo prezioso per buttarlo. Le litigate erano quotidiane. Per nulla, per il silenzio, per ogni piccolezza. Lei urlava, lui lanciava tazze contro il muro. L’ultima cosa che le aveva detto: «Non mi servi a niente. Sparisci.» E così aveva fatto. Se n’era andata in città. Poi sempre più lontano. Prima in periferia, poi a Milano, poi semplicemente… lontano dal passato.
Aveva lavorato dove capitava: cameriera, commessa, dattilografa, aveva pulito scale, vissuto in stanze con odori estranei. Cuciva, scriveva poesie — finché le parole non l’avevano più salvata. La vita era andata avanti come l’acqua in un tubo arrugginito — rumorosa, a volte ammuffita. Ma procedeva. E lei con essa.
Non aveva mai scritto. Mai chiamato. Non sapeva nemmeno se suo padre fosse ancora vivo. Finché un giorno non ricevette una telefonata: un ufficiale del comune le comunicò che era morto. Una settimana prima. Solo. Senza testimoni. I vicini se ne erano accorti dall’odore. Lo avevano seppellito a spese del municipio. E la casa era rimasta lì.
Ed eccola lì, senza sapere il perché. Per controllare? Per perdonare? Per chiudere un capitolo? O solo per assicurarsi che se ne fosse davvero andato.
Al terzo giorno, entrò in casa. Apri la porta con fatica e inspirò l’odore — muffa, tabacco e tempo impastati insieme. Tutto era al suo posto. Il tavolo dove una volta si preparava il sugo. La poltrona in cui lui sedeva. Il giornale sul davanzale. La tazza con scritto «Migliore Papà» — assurda, amara, quasi una presa in giro. La casa taceva, ma le pareti sembravano sussurrare: ricordi?
Rimase in piedi in mezzo a quel silenzio, senza sapere perché fosse lì. Per perdonare? Per controllare? O solo per mettere un punto?
Passò una settimana a ripulire la casa. Ridipinse la staccionata sgangherata, rattoppò il tetto, strofinò i vetri finché non scricchiolarono. Non perché intendesse restare. Ma perché qualcuno doveva ricordare a quella casa che era ancora viva.
Il nono giorno se ne andò. Niente oggetti, niente souvenir. Solo una foto di quando aveva otto anni, la madre ancora giovane e il padre che sorrideva. O fingeva di farlo. Ma erano lì, insieme. Mise la foto nel portafoglio. Non per nostalgia. Per non dimenticare.
La casa rimase lì. Stanca, scrostata. Ma non vuota. Custodiva passi, voci, litigate, gioia, il profumo della marmellata, le ombre di notti e parole che non esistevano più. A volte il dolore non se ne va. Ma impari a conviverci.
A volte la casa smette di essere una ferita. Diventa terra. Quella stessa su cui una volta hai imparato a camminare. E a cadere. E a rialzarti.
E questo basta, per ricominciare. Non da zero. Ma da ciò che è rimasto. E che ora ti appartiene. Per sempre.