‘Dovete consegnarci il bambino. Siamo noi i suoi veri genitori,’ dissero degli sconosciuti alla porta

*Diario personale*

Oggi è stato un giorno che mi ha spezzato il cuore. Due estranei hanno bussato alla mia porta e mi hanno detto: “Dovete darci nostro figlio. Siamo i suoi veri genitori.” Non so nemmeno da dove cominciare.

L’altro giorno, Matteo mi ha chiesto: “Mamma, posso non andare a scuola domani? Ho di nuovo mal di testa.” Era in piedi sulla soglia della cucina, il viso pallido, con delle ombre scure sotto gli occhi.

“Ancora?” gli ho risposto, smettendo di mescolare il minestrone. “È la terza volta questa settimana. Forse dovremmo andare dal dottore.”

“Non serve il dottore. Sono solo stanco. Posso restare a casa?”

“Vediamo domattina. Intanto, finisci i compiti.”

“Li ho già fatti.”

“Tutti? Anche matematica?”

“Anche matematica.”

Gli ho poggiato una mano sulla fronte. Niente febbre, ma ultimamente è così spento, pensieroso. Prima non stava mai fermo, adesso passa ore in camera sua a guardare fuori dalla finestra.

“Matteo, a scuola va tutto bene? Qualcuno ti infastidisce?”

“Tutto bene, mamma. È solo che mi fa male la testa.”

Se nè andato in camera sua, e io sono tornata ai fornelli, ma lansia non se ne andava. Otto anni che cresci un figlio, pensi di conoscerlo come le tue tasche, e poi allimprovviso capisci che qualcosa non va, ma non sai cosa.

Quando è tornato mio marito, Luca, stanco dopo il turno, ha subito capito che qualcosa non andava.

“Che succede?”

“Matteo si lamenta ancora del mal di testa. Terza volta in una settimana.”

“Dovremmo portarlo dal dottore.”

“Glielho detto, ma non vuole. Forse è solo stanco. Fine del trimestre, ci sono le verifiche.”

Luca è andato da Matteo, li ho sentiti parlare a bassa voce. Poi è tornato e si è seduto a tavola.

“Dice che va tutto bene. Ma domani verrà dal dottore.”

“Bene. Lo prenoto io.”

A cena, Matteo non ha mangiato quasi niente. Ha rimestato la pasta con la forchetta, bevuto un po di tè e chiesto di andare a letto. Io e Luca ci siamo scambiati unocchiata.

“Pensi che si sia innamorato?” ha detto lui. “A quelletà può succedere.”

“È troppo piccolo. Ha solo otto anni.”

“I bambini crescono in fretta, oggi.”

Ho sparecchiato e lavato i piatti, ma i pensieri continuavano a girare. Forse a scuola è successo qualcosa? O è malato davvero?

Di notte sono entrata più volte in camera sua. Si agitava nel sonno, borbottava. Gli ho sistemato il lenzuolo e accarezzato i capelli. Ha aperto gli occhi.

“Mamma?”

“Dormi, tesoro. Va tutto bene.”

“Mamma, mi vuoi bene?”

“Certo che ti voglio bene. Più di chiunque al mondo.”

“E se… se non fossi tuo?”

Mi sono irrigidita.

“Che dici, Matteo? Certo che sei mio. Dormi.”

Ha chiuso gli occhi e si è girato verso il muro. Io sono uscita, ma non riuscivo a dormire. Da dove gli vengono queste idee?

La mattina dopo si è alzato da solo, senza che glielo dicessimo. Ha fatto colazione e preparato lo zaino.

“Mamma, vado a scuola. Non ho più mal di testa.”

“Sicuro? Non vuoi andare dal dottore?”

“Non serve. Sto bene.”

Ed è scappato prima che potessi dire altro. Dalla finestra, lho visto attraversare il cortile di corsa, come se avesse fretta.

La giornata è passata tra lavoro, spesa e cucina, ma lansia non se ne andava. Avevo voglia di chiamare la maestra, ma non volevo sembrare una psicotica.

Poi, alle tre, il campanello. Alla porta cerano un uomo e una donna. Sconosciuti. Lui sui quarantanni, alto, capelli scuri. Lei più giovane, carina, ma con unespressione tesa.

“Buongiorno,” ha detto luomo. “Lei è Valeria Rossi?”

“Sì, sono io. Chi siete?”

“Io sono Marco Bianchi. Questa è mia moglie, Chiara. Dobbiamo parlare con lei.”

“Di cosa?”

Si sono scambiati unocchiata. Lei ha annuito, come per incoraggiarlo.

“Di suo figlio. Di Matteo.”

Mi sono irrigidita.

“Che è successo? Qualcosa a scuola?”

“No, a scuola tutto bene. Possiamo entrare? È una conversazione lunga.”

“Non vi conosco. Di cosa dobbiamo parlare?”

La donna ha fatto un passo avanti. Aveva le lacrime agli occhi.

“Per favore. È importantissimo. Si tratta di… ci deve restituire nostro figlio. Noi siamo i suoi veri genitori.”

Ho fatto un passo indietro. Le orecchie mi ronzavano.

“Cosa? Che assurdità! Matteo è mio figlio!”

“Ascolti,” luomo ha estratto dei fogli da una cartella. “Abbiamo le prove. Otto anni fa, in ospedale, cè stato un errore. Hanno scambiato i bambini.”

“Andatevene! Subito! O chiamo la polizia!”

“Valeria, la prego, ci ascolti,” la donna ha singhiozzato. “Anche noi abbiamo cresciuto un bambino per otto anni. Lo amavamo. Poi abbiamo scoperto…”

“Che cosa avete scoperto?”

“Nostro figlio… cioè, il bambino che abbiamo cresciuto… si è ammalato. Serviva una trasfusione. E abbiamo scoperto che il gruppo sanguigno non corrispondeva. Né al mio, né a quello di mio marito. Abbiamo fatto il test del DNA.”

Mi sono aggrappata allo stipite della porta. Le gambe mi tremavano.

“E allora?”

“Non è nostro figlio biologico. Abbiamo indagato, siamo andati in ospedale. Hanno controllato gli archivi. Quella notte, quando ho partorito io, sono nati solo due maschi. Il nostro e il suo.”

“Devesserci un errore. Un malinteso.”

“Abbiamo fatto il test con il bambino che abbiamo cresciuto. Poi… abbiamo preso un campione del DNA di Matteo.”

“Come? Quando?”

Luomo ha distolto lo sguardo.

“Ci dispiace. Lo abbiamo seguito per qualche giorno. Abbiamo preso un bicchiere di succo che aveva usato. Abbastanza per lanalisi.”

“Avete spiato mio figlio? È un reato!”

“Dovevamo sapere la verità. Il test ha confermato. Matteo è nostro figlio biologico.”

Ho sentito che stavo per svenire. Sono tornata dentro, caduta su una sedia nellingresso. Loro sono rimasti sulla soglia.

“Mostratemi i documenti.”

Mi ha dato la cartella. Risultati del DNA, certificati dellospedale, altri fogli. Li guardavo, ma le lettere mi sfuggivano.

“Non può essere vero.”

“Anche noi non volevamo crederci,” ha detto piano la donna. “Otto anni. Otto anni che crescevo il figlio di unaltra.”

“Non è il figlio di unaltra!” ha detto luomo bruscamente. “Giovanni è nostro figlio. Non biologico, ma nostro. Lo amiamo.”

“E noi amiamo Matteo,” ho detto alzando lo sguardo. “E non lo daremo a nessuno.”

“Ma è nostro, per sangue…”

“Per sangue! E chi lha cresciuto? Chi è rimasta sveglia di notte quando gli spuntavano i denti? Chi è stata in ospedale quando ha avuto la varicella? Chi lha accompagnato a scuola, fatto i compiti

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