Due donne di circa sessantacinque anni salirono su un treno diretto a Roma. Per prima entrò con calma una bionda di bassa statura, poi, poco prima della partenza, si affrettò a salire una mora esile dai capelli corti. Il treno partì, il viaggio era lungo, così, dopo essersi sistemate e aver fatto uno spuntino, iniziarono a conversare.
“Vado per lavoro,” confidò la mora. “Mi hanno mandato per un paio di giorni: una conferenza e visitare un paio di clienti. Sì, sono in pensione, ma stare a casa mi annoia e i soldi non bastano mai, così lavoro, faccio trasferte. È dura, ovviamente, l’età si fa sentire, ma mi arrangio.”
Il racconto era interessante: la compagna di viaggio la ascoltava attentamente, faceva domande e annuiva di tanto in tanto. Così Galina – era questo il nome della mora – spiegò che nel tempo libero praticava yoga, guardava serie TV, passeggiava nel parco vicino casa e viveva in un minuscolo appartamento nel quartiere più periferico della città. Poi chiese infine: “E lei?”
“Beh, io sono una vagabonda,” rispose l’altra donna, sorridendo ironicamente.
“Come – una vagabonda?”
Galina guardò la sua compagna di scompartimento con stupore: ben curata, con un taglio di capelli impeccabile, una donna con una manicure fresca non corrispondeva per nulla all’immagine che Galina aveva di una persona senza fissa dimora, che aveva visto alla TV, e che a volte incontrava vicino casa quando buttava la spazzatura.
“Ma non ha proprio nessuna casa?” esclamò Galina, per poi rimproverarsi mentalmente: che domanda indiscreta!
La donna sorrise di nuovo amaramente: “No, ho un appartamento nel centro della città, tre stanze, con una grande terrazza, luminoso e caldo,” sospirò come in sogno.
Galina la fissava incredula, mentre la compagna continuava: “Ma non ci vivo per nulla! Sono ormai dieci anni che passo lì giusto un paio di giorni ogni due o tre mesi, poi riparto. Non so nemmeno io dove abito più, in quale città mi trovo?”
Galina non capiva più nulla, pensava: che strano, forse questa donna è malata?
Ma l’altra proseguì: “Vede, ho quattro figli. Ho sempre lavorato tanto, per loro, volevo che avessero la migliore istruzione possibile, delle buone carriere. E ci sono riuscita, sono cresciuti, hanno studiato all’università, poi si sono trasferiti in altre città, in ogni parte del paese. Si sono sposati, sono arrivati i nipoti. E lì è iniziato tutto: ‘Mamma, vieni a darci una mano con i bimbi, mamma, è tanto che non vieni, mamma, vieni a trovarci, mamma, devo tornare al lavoro, non c’è nessuno che possa tenere il bambino, abbiamo voglia di vederti, ho già preso i biglietti per te.'”
Si fecero anche un programma tra di loro: due mesi qui, tre lì, poi di nuovo in viaggio, poi ancora un trasloco.
Galina ascoltava senza respirare.
“Non so più in quale città vivo, dov’è la mia stanza, il mio letto, la mia casa? C’è solo la mia borsa con me, coi farmaci e qualche cosa indispensabile. È dura, certo, avrei voglia di riposare, stare a casa, sdraiarmi e guardare la TV, magari andare a yoga… Ma dall’altra parte, è gioia, stare con i nipoti, aiutare i figli, viaggio finché serve, se è necessario, lo faccio con piacere. Portavo sempre con me la mia vecchia gatta Milla con me, e i miei figli sempre: ‘Porta anche Milla!'” La gatta è morta ormai, ma io continuo a viaggiare per il paese – senza fissa dimora, vagabonda, in altre parole.”
“Averne di vagabondi così!” esclamò Galina. Galina era completamente sola e non poteva nemmeno permettersi un gatto, di cui aveva sempre sognato, a causa dei frequenti viaggi di lavoro. “Suona come un brindisi!” disse poi ridendo.
“Proprio vero,” convenne la compagna e propose: “E allora beviamo un tè e andiamo a dormire.”
Così fecero. Bevvero il tè in silenzio: ognuna pensava ai propri pensieri.