Caro diario,
Oggi ho rivissuto le prime note della nostra amicizia, due melodie intrecciate sin da quando Ginevra e io eravamo piccole vicine di casa a Bologna, allasilo Il Giardino dei Sogni. Il nostro legame sembrava parte integrante del cortile, come quella panchina in pietra di marmo o il melo secolare sul quale ci rifugiavamo durante le piogge. Condividevamo caramelle di cioccolato che Ludovica teneva sempre in tasca, e durante la pausa silenziosa ci addormentavamo sulle lettini vicini, intrecciando i nostri capelli scuri e chiari in un groviglio di ricordi.
Le nostre famiglie erano diverse come un violino e un mandolino, ma nella sinfonia dellinfanzia suonavano sorprendentemente in armonia.
La famiglia di Ginevra era ordinata. Il papà, Marco Bianchi, era ingegnere in una fabbrica di macchine per la stampa, mentre la mamma, Maria Bianchi, insegnava al Conservatorio di Musica. Lappartamento profumava sempre di vaniglia fresca dai biscotti al burro e di cera lucidata del parquet. Lordine regnava: i libri in fila, la cena sempre alle sette, i programmi del weekend discussi sul tavolo coperto da una tovaglia di lino ricamato.
Maria sognava che Ginevra diventasse pianista, così, a sei anni, la mise al pianoforte a coda nero lucido. La bambina suonava le scale guardando fuori dalla finestra, dove il brusio spensierato dei bambini si sentiva come un sottofondo musicale.
La famiglia di Ludovica era caos creativo. La mamma, Caterina Rossi, realizzava costumi per il Teatro Comunale, e lappartamento sembrava un deposito di scenografie: nel angolo un cavaliere di cartapesta, sul retro di una sedia una mantella del 30, sul tavolo di cucina una testa di papiermâché con sopracciglia sollevate. Il padre era assente, e Caterina colmava quel vuoto con amore, lavoro e unirriverente leggerezza. Non cera rigido orario, ma cera sempre qualcosa di nuovo da scoprire.
Fu nella casa di Ludovica che Ginevra assaporò per la prima volta la vita un po pazza ma genuina. La bambina di vestiti stirati si divertì a indossare crinoline e turbanti, a sporcarsi le mani di colla e vernice, a bere tè con marmellata profumata mentre Caterina raccontava intrighi dietro le quinte. Per Ginevra quel luogo era una porta verso un mondo colorato e libero.
Al contrario, la casa dei Bianchi era per Ludovica unisola di stabilità. Amava trovarsi al tavolo impeccabile, mangiare i cannoli alla ricotta e sentirsi parte di un universo prevedibile e rassicurante. Marco a volte le mostrava semplici trucchi con monete, la sua energia calma era un conforto silenzioso. Quando Ginevra sedeva al pianoforte, Ludovica rimaneva in un angolo, rapita: la musica dellamica era per lei magia, non routine.
Le due madri si guardavano con rispetto e una leggera diffidenza. Maria scuoteva la testa di fronte al disordine creativo di Caterina, ma apprezzava che Ginevra crescesse in un ambiente disciplinato. Caterina, dal canto suo, trovava la famiglia Bianchi un po noiosa, ma era grata per la loro costante cura, il cibo e la pulizia impeccabile che offrivano a Ludovica.
È sorprendente come questi due mondi diversi non si scontrassero ma si completassero, come yin e yang. Quando, al quinto anno, Ludovica ebbe la sua prima cotta e piangeva sul letto ben fatto di Ginevra, Maria, infrangendo ogni sua regola, le servì cioccolata calda con panna montata. E quando Ginevra ricevette un 4 in matematica e temeva di tornare a casa, fu Caterina a incontrarla in scala, a offrirle crêpe e a dirle che un voto non è una condanna, né tanto meno la fine del mondo.
La nostra amicizia, intrecciata di capelli chiari e scuri, era più forte di quanto credessimo. Era fatta di vaniglia e colla, di due amori materni diversi ma ugualmente intensi, che costruivano ponti sopra le piccole discordie quotidiane, creando per noi due ragazze un universo ricco di colori.
Gli anni volarono come pagine di un calendario strappato. Dopo la scuola le nostre strade si separarono, ma non si spezzarono: si allungarono come una molla pronta a riunirci.
Il vero punto di svolta arrivò al liceo. Maria stava già scegliendo i vestiti da sera per i concerti del conservatorio, ma Ginevra si ribellò.
Non voglio più andare al conservatorio, disse una sera, guardando oltre il pianoforte.
Il silenzio cadde come un velo.
Ma perché? Hai talento! Hai studiato tutta la vita! esitò Maria.
Ginevra strinse le mani.
Non voglio vivere solo di scale e sonate altrui. Voglio capire come funziona davvero il mondo: i soldi, le imprese, il mercato. È anche una musica, mamma, solo diversa.
Maria rimase sconvolta, vedeva quel desiderio come un tradimento non solo dei suoi sogni, ma dellarte stessa.
Fu allora che Ludovica, seduta in cucina con Marco, trovò le parole giuste.
Signora Bianchi, la sua Ginevra non scappa dalla musica. Sta solo cercando il proprio strumento, spiegò.
Ginevra si iscrisse alla facoltà di Economia a Roma. La sua mente matematica, cresciuta tra le note, trovò rifugio in formule e modelli finanziari. Si immerse a capofitto in tirocini internazionali, corsi e scadenze. Il suo guardaroba divenne una collezione di tailleur impeccabili, i suoi KPI erano la nuova partitura. Ottenne quello che aveva sempre sognato: carriera, indipendenza finanziaria, status.
Ma la sera, nel suo elegante monolocale, sentiva un vuoto. La vita era sua, ma mancava qualcosa di intimo, di genuino.
Ludovica rimase a Bologna, entrò allIstituto dArte e aprì una piccola bottega di moda. Creava abiti esclusivi, rivitalizzava pezzi depoca. La mamma, Caterina, era sempre al suo fianco, trasformando stoffe e ricami in minicapolavori. La bottega divenne un rifugio per studenti, attori del teatro di sua madre, musicisti; tutti vi trovavano un pezzo di sé. Le discussioni notturne su un abito anni 20 o su un pizzo vintage erano per Ludovica la prova tangibile di quanto fosse fortunata ad avere una madre così creativa.
Il contatto tra noi divenne sporadico: messaggi brevi, like alle foto. Ginevra vedeva le immagini di Ludovica tra bozzetti, abiti vintage su manichini e il gatto persiano Micio che dormiva tra i rotoli di tessuto. Quei piccoli momenti le apparivano come un paradiso perduto tra riunioni e teambuilding.
Ludovica osservava la rapida ascesa della sua amica con orgoglio e una leggera nostalgia. La mia Ginevra conquista il mondo, pensava, guardando una foto di lei davanti ai grattacieli di Porta Nuova. Nella sua bottega, il profumo di cuoio e vernice sembrava addolcirsi.
Le nostre vite continuavano, ma lamicizia, sebbene sembrasse sepolta, tornò a farsi sentire.
Un giorno, mentre smontavo i miei averi dopo un trasloco, trovai in fondo alla valigia una vecchia foto: eravamo noi, sette anni, sotto lo stesso melo, abbracciate. Unondata di malinconia mi colpì; il cuore si strinse come se avessi perso la parte più semplice di me stessa.
Quella notte scrissi a Ludovica non un breve messaggio, ma una lunga lettera. Non parlai dei successi, ma della solitudine che a volte mi assale in una città caotica, del peso dei numeri che mi opprime, della voglia di quella semplicità che traspare da ogni sua foto.
Quindici minuti dopo rispose: Ginevrina, sciocca! Credevo che fossi diventata così importante da non avere più spazio per il nostro caos creativo. Mi sei mancata ogni giorno.
Da quel momento ricominciammo a parlare. Non ogni giorno, perché i ritmi erano diversi, ma le videochiamate divennero un rito di purificazione. Io, sdraiata sul divano di pelle italiana, ascoltavo per ore le discussioni di Ludovica e Caterina sul colore dei perline per un cappello teatrale. Lei, invece, mi spiegava i suoi problemi di progetto con consigli pratici e intuizioni che sembravano geniali.
Un giorno compresi che quelle chiacchiere non bastavano più. Volevo respirare laria della mia città natale e stringere Ludovica tra le braccia.
Il desiderio sbocciò come un temporale primaverile. Il mio capo mi offrì una settimana di ferie, la prima in tre anni. Stai bruciando, mi disse, e non trovai nulla da obiettare. Invece di volare al mare come suggerivano i colleghi, comprai un biglietto del treno per Bologna.
Non avvisai né i genitori né Ludovica. Un impulso caldo e dolce mi spinse a fare sorpresa.
Laccoglienza dei miei genitori fu commovente. Maria, dimenticando labitudine al rigore, mi strinse forte piangendo, mentre Marco, silenzioso, mi strinse la mano con forza. Lappartamento profumava ancora di vaniglia, e per la prima volta dopo tanto tempo sentii il peso sul petto alleggerirsi.
Verso sera, con una tazza di caffè, chiamai Ludovica.
Ciao, sono Ginevra. Sono in città, rispose.
Un silenzio di un attimo, poi una risata gioiosa.
Dove sei?! Non muoverti, vengo subito!
Venticinque minuti dopo, alla porta, Ludovica entrò ansimante. Ci guardammo un attimo, poi ci abbracciammo come due bambine di sette anni, ridendo e piangendo contemporaneamente.
Ginevrina, sei davvero tu? soffio mentre asciugavo le lacrime. Che rondine importante sei.
E tu sei sempre la stessa, risposi ridendo.
Ci sedemmo in cucina; il tempo sembrò tornare indietro. Al posto del cioccolato con panna, sorseggiavamo vino frizzante; invece dei compiti, parlavamo delle nostre vite adulte. Lintimità e la leggerezza rimanevano quelle delle nostre prime avventure.
La sera successiva andammo in un caffè. Il tempo scivolò via tra chiacchiere e ricordi.
Al tavolo accanto, un giovane leggeva un libro, ma non poteva fare a meno di osservare il nostro tavolo, dove scoppiava una risata leggera. Quando Ludovica, per sbaglio, rovesciò del vino sul vestito, lui si avvicinò timidamente.
Scusi lintrusione, disse, sorridendo, non ho potuto fare a meno di notare voi brillate quando parlate. È raro vedere un dialogo così vivo.
Io, normalmente riservata con gli estranei, risposi: Non ci vedevamo da anni. Stiamo recuperando il tempo perduto.
Ludovica tornò, valutò la scena e si sedette, curiosa.
Questo è Marco, presentai. È affascinato dalla nostra amicizia.
E lo è, affermò Ludovica senza esitazione. Sedetevi, ora che avete iniziato a conoscervi. Avvertite, però, che le nostre conversazioni possono sembrare strane. Siamo passate dal parlare di tagli avanguardisti a discutere di diritto societario.
Marco era un blogger locale, scriveva ritratti di persone semplici ma interessanti della città. La nostra storia di due amiche, divise ma ritrovatesi, lo colpì così tanto che chiese il permesso di scriverne e mi diede il suo numero.
Sapete, disse prima di andare, in un mondo di schermi, la vostra storia è come un sorso daria fresca. È una rarità.
Ludovica sollevò un sopracciglio:
Allora, Ginevra? Ti è piaciuto? Lho vista guardarti.
Non è importante, dissi, ma un sorriso tradì il mio cuore. È solo la serata di oggi è unaltra prova che, quando fai un passo verso il passato, il futuro ti regala sorprese piacevoli.
Uscimmo dal caffè. Laria era limpida, le pozzanghere riflettevano i lampioni. Camminavamo mano nella mano, in silenzio, non perché non ci fosse nulla da dire, ma perché tutto era già stato detto. In quel silenzio sentii la promessa che le nostre strade non si sarebbero più separate.
Il giorno dopo Marco mi chiamò, curioso e un po misterioso.
Non è solo per larticolo, spiegò, ieri ho parlato con il proprietario di una catena di boutique. Cerca collaborazioni tra moda artigianale e business moderno. Ho mostrato le foto delle tue creazioni vuole incontrarci tutti e due.
Rimasi immobile, guardando il cortile familiare. Tre giorni prima il mio mondo era confinato tra le pareti dellufficio, ora il destino mi proponeva di unire lamicizia con un progetto che non avrei mai osato sognare: intrecciare armonia e calcolo, tradizione e innovazione.
Va bene, dissi infine. Incontriamoci nella tua bottega.
Appesi il telefono, compresi che non era solo unopportunità daffari. Era la possibilità di riscrivere la mia storia, di crearne una nuova, dove la mia passione per la precisione potesse fondersi con il talento di Ludovica di infondere vita alle cose più semplici.
E così, con il cuore leggero, mi preparo a questo nuovo capitolo.






