Durante un matrimonio, il figlio ha chiamato la madre «marmocchia» e «stracciona», ordinandole di andarsene. Ma lei ha preso il microfono e ha pronunciato un discorso…

Ricordo ancora il giorno del matrimonio, quando mio figlio Alessandro mi aveva chiamata vecchia puttana e senza valore, ordinandomi di andarmene. Ma io presi il microfono e aprii il mio discorso

Ginevra Bianchi stava nella soglia della camera, appena socchiusa per non intralciare, ma nemmeno perdere quel momento importante. Il suo sguardo era quello di una madre fiera, tenera, quasi sacrale. Alessandro era davanti allo specchio, in un elegante completo scuro con farfallino, mentre gli amici lo aiutavano a sistemare la cravatta.

Sembrava una scena da film: il giovane alto, bello, sereno. Dentro Ginevra però un nodo di dolore si stringeva: sentiva di essere fuori posto, come se non esistesse davvero in quella vita, come se non fosse stata chiamata.

Con delicatezza sistemò il bordo del suo vecchio abito, immaginando mentalmente come sarebbe stato con la giacca nuova che aveva preparato per il giorno dopo perché aveva già deciso di andare al matrimonio, anche senza invito. Prima ancora di fare un passo, Alessandro, come se avesse percepito lo sguardo sua, si voltò e il suo viso cambiò immediatamente. Chiuse la porta e rimase nella stanza.

Mamma, dobbiamo parlare disse, contenuto ma fermo.

Ginevra raddrizzò la schiena. Il cuore le batteva allimpazzata.

Certo, figlio mio. Io ho comprato quelle scarpe di cui ti parlai, ricordi? E

Mamma la interruppe non voglio che tu venga domani.

Ginevra rimase immobile, quasi non capì subito il senso delle parole, come se la sua mente rifiutasse di far entrare il dolore nel cuore.

Perché? balbettò la voce. Io io

Perché è un matrimonio. Ci saranno gli ospiti. Tu non sei nella forma giusta. E il tuo lavoro Mamma, capisci, non voglio che pensino che io sia una di quelle… persone di fondo.

Le sue parole cadevano come una pioggia gelida. Ginevra cercò di intervenire:

Ho prenotato un parrucchiere, mi faranno la piega, il manicure Ho un vestito, molto sobrio, ma

Basta la interruppe di nuovo. Non peggiorare le cose. Ti noteranno lo stesso. Ti prego, non venire.

Uscì senza attendere risposta. Ginevra rimase sola nella stanza fiocamente illuminata. Il silenzio la avvolse come una nuvola di cotone. Anche il respiro e il ticchettio dellorologio si fecero ovattati.

Rimase seduta immobile per lungo tempo. Poi, come spinta da qualcosa di interno, si alzò, aprì larmadio, estrasse una vecchia scatola impolverata, la aprì e ne tirò fuori un album. Lodore di carta ingiallita, colla e giorni dimenticati la avvolse.

Alla prima pagina cera una foto sbiadita: una ragazzina in un vestito stropicciato accanto a una donna con una bottiglia in mano. Ginevra ricordò quel giorno: la madre urlava al fotografo, poi a lei, poi ai passanti. Un mese dopo le fu revocato il diritto di custodia. Così finì in un istituto per minori.

Pagina dopo pagina, colpi di memoria. Foto di gruppo: bambini in divise identiche, senza sorrisi. Uninsegnante dal volto severo. Fu allora che capì per la prima volta cosa significasse non essere voluta da nessuno. La picchiarono, la punirono, la privarono della cena. Ma non pianse; solo i deboli piangevano, e i deboli non venivano risparmiati.

Il capitolo successivo: ladolescenza. Dopo la scuola, trovò lavoro come cameriera in una trattoria lungo la Via del Corso. Era dura, ma non più spaventosa. Conobbe una certa libertà, e questo la stimolava. Iniziò a curare il suo aspetto, a cucire gonne con tessuti economici, a pettinare i capelli alla vecchia maniera. Di notte imparò a camminare sui tacchi, solo per sentirsi bella.

E poi, un caso. In cucina, rovesciò del succo di pomodoro su un cliente. Il caos, le urla, il gestore che gridava, chiedendo spiegazioni. Tutti erano arrabbiati, ma allora arrivò Vittorio, alto, sereno, con una camicia chiara, e sorrise:

È solo succo. Un incidente. Lasciate lavorare la ragazza in pace.

Ginevra rimase senza parole. Nessuno le aveva mai parlato così. Le mani tremavano mentre prendeva le chiavi.

Il giorno dopo, Vittorio le portò dei fiori, li pose sul bancone e disse: «Vorrei invitarti a prendere un caffè, senza impegni». Il suo sorriso fu la prima volta in anni che la fece sentire non più una cameriera dellorfanotrofio, ma una donna.

Sedettero su una panchina in un piccolo parco, bevendo caffè da bicchieri di plastica. Lui parlò di libri, di viaggi. Lei raccontò dellorfanotrofio, dei sogni, dei sogni in cui aveva una famiglia.

Quando prese la sua mano, lei non poté credere. Il suo mondo cambiò: quel tocco portava più tenerezza di tutto il resto. Da allora lo aspettò. Ogni volta che compariva, con la stessa camicia, gli stessi occhi, lei dimenticava il dolore. Si vergognava della sua povertà, ma lui non lo notava. Diceva: «Sei bella. Sii te stessa».

E lei credette.

Quellestate fu stranamente calda e lunga. Ginevra la ricordava come il periodo più luminoso della sua vita, un capitolo scritto con amore e speranza. Insieme a Vittorio andavano al fiume, passeggiavano nei boschi, chiacchieravano ore intere nei bartti del centro. Lui la presentò ai suoi amici: intelligenti, allegri, colti. Allinizio lei si sentiva fuori posto, ma Vittorio le stringeva la mano sotto il tavolo, gesto che le dava forza.

Guardavano i tramonti sul tetto di un edificio, portavano lì il tè in una thermos, avvolti in una coperta. Vittorio parlava dei suoi sogni di lavorare in una multinazionale, ma diceva che non voleva lasciare lItalia per sempre. Ginevra ascoltava, trattenendo il respiro, memorizzando ogni parola, perché sentiva che tutto era troppo fragile.

Un giorno lui, scherzando ma anche serio, le chiese: «Come ti sentiresti a un matrimonio?». Lei rise, nascondendo limbarazzo, ma dentro esplose: sì, mille volte sì. Solo che aveva paura di dirlo ad alta voce, temeva di spezzare la favola.

Ma quella favola fu rotta da altri.

Erano nello stesso bar dove Ginevra aveva lavorato, quando tutto iniziò. Al tavolo accanto qualcuno rise forte, poi un urlo, e un cocktail colpì il volto di Ginevra. Il liquido scivolò sulle guance e sul vestito. Vittorio balzò, ma era troppo tardi.

Al tavolo accanto cera la cugina di Vittorio, una donna dal tono gelido e disgustato:

È lei? La tua amata? Una cameriera? Dallorfanotrofio? Così chiami lamore?

La gente guardava. Qualcuno rideva. Ginevra non piangeva. Si alzò, si asciugò il viso con una tovaglietta e uscì.

Da quel momento iniziò il vero assedio. Il telefono si riempì di sussurri velenosi, minacce. «Vai via, prima che peggiori». «Ti raccontiamo chi sei». «Hai ancora una via duscita».

Cominciarono le diffamazioni: la chiamarono ladra, prostituta, tossicodipendente. Un vecchio vicino, Giacomo Ivanovi, le disse che alcuni uomini le avevano proposto soldi per firmare un documento, sostenendo fosse vista rubare qualcosa dallappartamento. Giacomo rifiutò.

Sei buona, disse. Loro sono dei serpenti. Resisti.

Ginevra resistette. Non rivelò nulla a Vittorio, temendo di rovinargli la vita prima della partenza per lestero: lui doveva partire per uno stage in Europa. Aspettava che tutto finisse, che loro avrebbero superato tutto.

Ma non dipendeva solo da lei.

Poco prima della partenza, Vittorio ricevette una chiamata dal padre. Michele Borromeo, sindaco di una piccola cittadina e uomo influente, lo convocò nel suo ufficio.

Ginevra vi andò, vestita modestamente ma pulita. Si sedette di fronte al sindaco, come davanti a un tribunale. Lui la guardò dallalto come polvere ai suoi piedi.

Non capite con chi avete a che fare disse. Mio figlio è il futuro di questa famiglia. Tu sei un macchia sulla sua reputazione. Vattene, o farò che sparisci per sempre.

Ginevra strinse le mani sulle ginocchia.

Lo amo, sussurrò. E lui mi ama.

Amore? sbuffò il sindaco. Lamore è un lusso per gli uguali. Tu non sei uguale.

Non si spezzò. Si alzò, la testa alta, e non disse nulla a Vittorio. Credeva che lamore potesse vincere. Ma il giorno della partenza Vittorio volò via senza conoscere la verità.

Una settimana dopo, il proprietario del bar, Stelio, un uomo sempre scontento, la chiamò: Sono spariti dei prodotti, e si dice che tu li abbia portati via dal magazzino. Ginevra non capì. Poi arrivò la polizia, iniziò lindagine. Stelio puntò il dito contro di lei. Gli altri tacciono. Chi conosceva la verità aveva paura.

Lavvocato statale, giovane e indifferente, parlò a fatica in tribunale. Le prove erano deboli, cucite con fili bianchi. Le telecamere non mostravano nulla, ma le testimonianze oculari sembravano più convincenti. Il sindaco fece pressione. Sentenza: tre anni di reclusione in un carcere a regime ordinario.

Quando le chiusero la porta della cella, Ginevra capì: tutto, lamore, le speranze, il futuro, era rimasto al di là delle sbarre.

Dopo qualche settimana, sentì un dolore al petto. Fece gli esami. Il risultato fu positivo.

Incinta. Di Vittorio.

Allinizio non riusciva a respirare per il dolore. Poi arrivò il silenzio. Poi la decisione: avrebbe sopravvissuto, per il bambino.

Essere incinta in prigione era un inferno. La deridevano, la umiliavano, ma lei taceva. Accarezzava il ventre, parlava al piccolo di notte, pensava al nome: Alessandro, in onore del santo patrono, per la nuova vita.

Il parto fu difficile, ma il bambino nacque sano. Quando lo prese tra le braccia, pianse silenziosamente. Non era disperazione, era speranza.

Due infermiere, una per omicidio, laltra per furto, la aiutavano. Brutte, ma rispettose del neonato. Le insegnavano, le consigliavano, lo accompagnavano. Ginevra resisteva.

Dopo un anno e mezzo fu rilasciata con condizionalità anticipata. Allesterno lattendeva Giacomo, con una vecchia busta per bambini.

Prendi disse. Ci hanno dato questo. Andiamo, ti aspetta una nuova vita.

Alessandro dormiva nella culla, stringendo un orsacchiotto.

Non sapeva come ringraziare. Non sapeva da dove cominciare. Ma il primo giorno iniziò subito.

Il mattino iniziava alle sei: Alessandro al lettino, lei allufficio, pulizie. Poi la lavanderia, la sera un lavoro saltuario in magazzino. Di notte cuciva: tovagliette, grembiuli, federe. Il giorno diventava notte, la notte giorno, tutto si confondeva in una foschia. Il corpo era stanco, ma lei andava avanti, come una ruota che non si ferma.

Un giorno incontrò Lara, la stessa ragazza del chiosco accanto al bar. Quando la vide, si bloccò:

Dio sei tu? Sei viva?

Cosa avrei dovuto fare? rispose Ginevra, calma.

Scusa sono passati tanti anni Ascolta, sai, Stelio è fallito. Lo hanno cacciato dal bar. Il sindaco è andato a Mosca. Vittorio si è sposato ormai è felice, ma dicono che beva troppo.

Ginevra ascoltò come se guardasse attraverso il vetro. Qualcosa le graffiò dentro, ma annuì:

Grazie. Buona fortuna.

Continuò il suo cammino senza lacrime, senza isterie. Solo quella notte, adagiata il figlio, seduta in cucina, si concessi di piangere una volta, senza urla, solo un silenzioso sgorgo di dolore. E al mattino si alzò di nuovo, e andò avanti.

Alessandro cresceva. Ginevra cercava di dargli tutto: i primi giochi, una giacca colorata, cibo buono, uno zaino carino. Quando si ammalava, dormiva accanto al letto, sussurrava fiabe, metteva impacchi. Quando si ferì il ginocchio, correva dalla lavanderia, tutta insaponata, e si rimproverava: perché non ho fatto attenzione? Quando chiese un tablet, vendette lunico anello doro che le rimaneva, un ricordo del passato.

Mamma, perché non hai un telefono come tutti? chiese un giorno Alessandro.

Perché ho te, Alessandrì rispose sorridendo. Tu sei la mia linea più importante.

Alessandro imparò a credere che tutto arrivi per caso, che la mamma fosse sempre lì, sempre sorridente. Ginevra celava la stanchezza come poteva, non si lamentava, non si lasciava sopraffare, anche quando voleva crollare.

Alessandro divenne sicuro, carismatico, buono studente, molti amici. Ma sempre più spesso diceva:

Mamma, comprati qualcosa, non vivere più in questi stracci.

Ginevra rispose:

Certo, figlio mio, ci provo.

Nel cuore però sentiva il dubbio: Anche lui, alla fine, è come tutti?

Quando annunciò di volersi sposare, lo abbracciò tra le lacrime:

Alessandrì, che gioia Ti cucirò una camicia bianca, va bene?

Lui annuì, come se non avesse sentito.

Poi arrivò quella conversazione che spezzò tutto. Sei una pulitrice. Sei una vergogna. Quelle parole furono come lame. Ginevra rimase davanti alla foto del piccolo Alessandro in pantaloncini azzurri, sorridente, con la mano tesa verso di lei.

Lo sai, piccolo sussurrò ho vissuto solo per te. Ma forse è ora di vivere anche per me.

Si alzò e andò al vecchio barattolo dove teneva per i giorni neri. Contò i soldi: bastavano per una buona vestito, un parrucchiere, un manicure. Si iscrisse a un salone in periferia, scelse un trucco sobrio, una pettinatura curataCon quel nuovo vestito elegante e il sorriso ritrovato, Ginevra entrò nella chiesa, pronta a parlare al suo figlio, al suo passato e al futuro che, per la prima volta, sentiva davvero suo.

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