Durante un matrimonio, il figlio ha offeso la madre chiamandola “senza tetto” e le ha ordinato di andarsene. Ma lei ha preso il microfono e ha fatto un discorso…

Ricordo che, al matrimonio, mio figlio Alessio mi chiamò zivana e senza soldi e mi ordinò di uscire. Io presi il microfono e aprii il discorso

Io, Ginevra Battaglia, mi trovavo nella soglia della camera da letto, appena socchiusa, per non disturbare ma nemmeno perdere il momento cruciale. Guardavo Alessio con quello sguardo in cui si mescolavano lorgoglio materno, la tenerezza e qualcosa di quasi sacro. Alessio, vestito di un elegante completo chiaro con papillon, era pronto a sposarsi, grazie allaiuto dei suoi amici.

Sembrava una scena di un film: il giovane era allineato, bello e sereno. Dentro di me, però, qualcosa stringeva il cuore: mi sembrava di essere superflua in quellinquadratura, come se non appartenessi più a quella vita, come se non fossi stata chiamata.

Sistemai con attenzione la piega del mio vecchio vestito, immaginando mentalmente come sarebbe stato con la giacca nuova che avevo preparato per il giorno dopo avevo già deciso di andare al matrimonio, anche senza invito. Prima ancora che potessi fare un passo avanti, Alessio, quasi avvertendo il mio sguardo, si girò, e lespressione sul suo volto cambiò in un attimo. Chiuse la porta e rimase nella stanza.

Mamma, dobbiamo parlare disse, con tono contenuto ma sicuro.

Io raddrizzai la schiena. Il cuore mi batteva allimpazzata.

Certo, figlio mio. Ho ho comprato quelle scarpe di cui ti ricordavi, le avevo mostrato, e anche

Mamma lo interruppe non voglio che tu venga domani.

Rimasi immobile. Allinizio non afferrai il senso delle sue parole, come se la mente rifiutasse di far entrare il dolore.

Perché? la voce tremò. Io io

Perché è un matrimonio. Ci saranno gli invitati. E tu non sei come ci si aspetta. E il tuo lavoro Mamma, capisci, non voglio che la gente pensi che provengo da da un fondo.

Le sue parole cadevano come una pioggia gelida. Cercai di replicare:

Mi sono iscritta a un parrucchiere, farò la pettinatura, il manicure Ho un vestito, molto sobrio, ma

Non serve lo interruppe di nuovo. Non peggiorare la cosa. Ti distinguerai lo stesso. Per favore, non venire.

Uscì senza attendere una risposta. Io rimasi sola nella stanza fiocamente illuminata. Il silenzio mi avvolse come una nuvola di cotone. Anche il mio respiro e il ticchettio dellorologio sembravano attenuati.

Rimasi immobile per molto tempo. Poi, come spinta da qualcosa dentro di me, mi alzai, aprii larmadio e trovai una scatola vecchia e impolverata, la aprii e ne estrassi un album. Lodore di carta da giornale, colla e giorni dimenticati mi colpì.

Alla prima pagina cera una foto ingiallita: una bambina in un vestito stropicciato accanto a una donna con una bottiglia in mano. Ricordai quel giorno: la madre urlava al fotografo, poi a me, poi ai passanti. Un mese dopo le revocavano la potestà genitoriale e io finii in un orfanotrofio.

Pagina dopo pagina, i ricordi colpivano come pugni. Foto di gruppo: bambini in divise identiche, senza sorrisi, e una direttrice dallaria severa. Fu allora che compresi per la prima volta cosa significasse essere non voluta. Ci picchiavano, ci punivano, ci lasciavano a cena vuota. Ma non piangevo. Piangevano solo i deboli, e i deboli non ricevevano pietà.

Il capitolo successivo fu ladolescenza. Dopo il diploma trovai lavoro come cameriera in un caffè di periferia. Era difficile, ma non più spaventoso. Finalmente avevo un po di libertà ed era entusiasmante. Divenni più curata, compravo vestiti economici, mi cucivo gonne con tessuti a buon mercato, acconciavo i capelli alla vecchia maniera. Di notte mi esercitavo a camminare sui tacchi, solo per sentirmi bella.

Poi arrivò lincidente. Al caffè causai una piccola confusione, rovesciando del succo di pomodoro su un cliente. Urla, rimproveri dal gestore, tutti arrabbiati. In quel frastuono, Vittorio, alto, calmo, in una camicia chiara, sorrise e disse:

È solo succo. Un caso. Lasciate che la ragazza lavori in pace.

Rimasi sbalordita. Nessuno mi aveva mai parlato così. Le mani tremavano mentre prendevo le chiavi.

Il giorno dopo mi portò dei fiori, li posò sul bancone e disse: «Vorrei invitarti a prendere un caffè, senza impegni». Il suo sorriso mi fece sentire, per la prima volta da anni, non più una «cameriera dellorfanotrofio», ma una donna.

Sedemmo su una panchina al parco, bevendo caffè da bicchieri di plastica. Parlò di libri, di viaggi. Io raccontai dellorfanotrofio, dei sogni, dei sogni in cui avevo una famiglia.

Quando mi prese la mano, non riuscivo a credere. Il suo tocco era più dolce di tutto ciò che avevo conosciuto. Da quel momento lo aspettai sempre. Ogni sua comparsa, con la stessa camicia e gli stessi occhi, cancellava il ricordo del dolore. Io mi vergognavo della mia povertà, ma lui sembrava non notarlo. Diceva: «Sei bella. Sii te stessa».

E credetti.

Quellestate fu insolitamente calda e lunga. Ricordo quella stagione come la più luminosa della mia vita, un capitolo scritto con amore e speranza. Con Vittorio andavamo al fiume, passeggiavamo nei boschi, chiacchieravamo ore nei piccoli caffè. Mi presentò ai suoi amici intellettuali, gioiosi, istruiti. Allinizio mi sentivo fuori posto, ma lui mi stretta la mano sotto il tavolo, e quel gesto mi dava forza.

Osservavamo i tramonti sul tetto di casa, portavamo tè in thermos, ci avvolgevamo in coperte. Vittorio parlava dei suoi sogni di lavorare in una multinazionale, ma diceva che non voleva abbandonare il Paese per sempre. Io ascoltavo, trattenendo il respiro, perché sentivo che tutto era troppo fragile.

Un giorno, scherzando ma con un velo di serietà, mi chiese come mi sentirei se dovessi andare al matrimonio. Io risi, nascondendo il disagio, e distolsi lo sguardo. Ma dentro di me accese una fiamma: sì, mille volte sì, ma avevo paura di dirlo ad alta voce, di rovinare la favola.

La favola fu spezzata da altri.

Eravamo al caffè dove avevo lavorato, quando qualcuno accanto iniziò a ridere rumorosamente, poi, con un gesto, un cocktail schizzò sul mio vestito. Il liquido scivolò sulle guance e sulla gonna. Vittorio si alzò di scatto, ma era già troppo tardi.

Al tavolo accanto cera sua cugina. Con voce carica dira e disprezzo disse:

È lei? La tua fidanzata? Una cameriera? Dallorfanotrofio? È così che chiami lamore?

La gente guardava. Alcuni ridevano. Io non piansi. Mi alzai, asciugai il viso con una tovaglietta e uscii.

Da quel momento cominciò la vera pressione. Il telefono si riempì di sussurri velenosi, minacce: «Vattene prima che peggiori», «Ti racconteremo tutto», «Hai ancora una possibilità di sparire». Iniziarono le provocazioni: diffusi voci che fossi ladra, prostituta, tossicodipendente. Un giorno si avvicinò il vecchio vicino, il signor Giacomo Ianni, e mi raccontò che alcuni gli avevano offerto soldi per firmare un documento, sostenendo di avermi vista rubare qualcosa dallappartamento. Lui rifiutò.

Sei una brava donna mi disse ma loro sono dei serpenti. Tieni duro.

Io mi aggrappai a quelle parole. Non raccontai nulla a Vittorio, non volevo rovinargli la partenza per lestero: doveva fare uno stage in Europa. Speravo solo che il tempo passasse, che noi ce la facessimo.

Ma non dipendeva solo da me.

Prima della sua partenza, Vittorio ricevette una chiamata dal padre, il signor Carlo Rossi, sindaco di Milano, uomo influente e spietato, che mi convocò nel suo ufficio.

Entrai, vestita modestamente ma pulita. Mi sedetti di fronte a lui, come davanti a un giudice. Mi guardò dallalto in basso.

Non capisce con chi ha a che fare disse. Mio figlio è il futuro di questa famiglia. Lei è una macchia sulla sua reputazione. Vada via, o io farò in modo che non torni più.

Stringetti le mani sulle ginocchia.

Lo amo sussurrai. E lui mi ama.

Amore? sbuffò il sindaco. Lamore è un lusso per gli uguali. Lei non è uguale a noi.

Non mi spezzai. Uscii a testa alta, senza dire nulla a Vittorio. Credevo che lamore avrebbe trionfato. Il giorno della sua partenza, però, non seppe mai la verità.

Una settimana dopo, il proprietario del caffè, il signor Stefano, burbero e sempre scontento, affermò che erano sparite delle forniture e che qualcuno laveva vista uscire con qualcosa dal magazzino. Io non capii nulla. Arrivarono i carabinieri, iniziò lindagine. Stefano mi indicò, gli altri tacquero. Chi sapeva la verità temeva di parlare.

Lavvocato di Stato, giovane, stanco e indifferente, parlò a bocca asciutta in tribunale. Le prove erano fragili, cucite con fili bianchi. Le telecamere non mostravano nulla, ma le testimonianze dei testimoni oculari parevano più convincenti. Il sindaco fece pressione. Il verdetto: tre anni di reclusione in regime di lavori agricoli.

Quando chiusero la porta della cella, capii che tutto lamore, la speranza, il futuro era rimasto dallaltra parte delle sbarre.

Dopo qualche settimana, mi venne nausea. Feci gli esami. Il risultato: positivo.

Incinta. Di Vittorio.

Allinizio il dolore mi soffocava. Poi venne il silenzio, poi la decisione: sarei sopravvissuta, per il bambino.

Essere incinta in una colonia era un inferno. Mi prendevano in giro, mi umiliavano, ma io tacevo. Accarezzavo il pancione, parlavo al piccolo di notte, pensavo al nome Alessandro, in onore del santo patrono, in segno di una nuova vita.

Il parto fu difficile, ma il bambino nacque sano. Quando lo presi tra le braccia, piansei. Un pianto silenzioso, non di disperazione, ma di speranza.

Due infermiere mi assistevano, una per gli omicidi, laltra per i furti. Rude, ma rispettose del neonato. Mi insegnavano, mi consigliavano, mi cantavano. Mi aggrappai a loro.

Dopo un anno e mezzo, fui rilasciata con condono. Allesterno mi aspettava Giacomo Ianni, con una vecchia busta di carta.

Tieni mi disse. È per te. Un nuovo inizio ci aspetta.

Alessandro dormiva nella sua carrozzina, stringendo un orsacchiotto.

Non sapevo come ringraziare. Dovetti cominciare subito. Le mattine iniziavano alle sei: Alessandro al lettino, poi io in ufficio a pulire. Dopo la lavanderia, la sera un lavoro di saldatura in magazzino. Di notte cucivo tovagliette, grembiuli, federe. Il giorno si scambiava con la notte, e tutto si confondeva in una nebbia. Il corpo si logorava, ma io andavo avanti, come una macchina ben oliata.

Un giorno, per caso, incontrai Lidia, la ragazza del chiosco accanto al caffè dove avevo lavorato. Quando mi vide, si bloccò.

Dio mio sei tu? Sei viva?

Cosa avrei dovuto fare? risposi tranquillamente.

Scusa sono passati tanti anni Ascolta, sai, Stefano è fallito. È stato cacciato dal caffè. Il sindaco è andato a Mosca. Vittorio è sposato. Da tempo. Ma dicono che sia infelice, che beva.

Ascoltai come se guardassi attraverso il vetro. Qualcosa mi pungé dentro, ma solo annuii.

Grazie. Buona fortuna.

E proseguii. Senza lacrime, senza sfuri, solo quella notte, accoccolata con Alessandro, mi concessi di piangere una volta non a gran voce, ma lasciando uscire il silenzio del dolore. Il mattino seguente mi alzai di nuovo e andai avanti.

Alessandro crebbe. Cerco di dargli tutto: i primi giocattoli, una giacca colorata, cibo gustoso, uno zaino bello. Quando si ammalava, stavo accanto al suo letto, raccontandogli fiabe, facendo impacchi. Quando cadeva e si sbucciava il ginocchio, correvo dalla lavanderia, tutta insaponata, e mi rimproveravo per la negligenza. Quando chiese un tablet, vendetti lunico anello doro che mi rimaneva un ricordo del passato.

Mamma, perché non hai un cellulare come tutti gli altri? mi chiese una sera.

Perché ho te, Alessandro, sorrisi. Tu sei la mia più importante chiamata.

Si abituò a pensare che tutto arrivasse per caso, che la mamma fosse sempre lì, sorridente. Nascondetti la stanchezza come potevo. Non mi lamentai. Non permisi a me stessa di cedere.

Alessandro divenne sicuro di sé, carismatico, buono studente, con molti amici. Ma ogni tanto mi diceva:

Mamma, comprati qualcosa, almeno una cosa nuova. Non possiamo continuare a vivere con questi stracci.

Sorrisi:

Va bene, figlio mio, cercherò.

Ma nel cuore mi torceva: è vero anche per lui?

Quando mi comunicò che si sarebbe sposato, lo abbracciai, le lacrime colmando gli occhi.

Alessandro, quanto sono felice Ti ricorderò di cucirti una camicia bianca, bene?

Lui annuì, quasi senza sentire.

Poi arrivò il dialogo che mi spezzò: «Sei una pulitrice. Sei una vergogna». Quelle parole furono come lame. Rimasi davanti a una foto del piccolo Alessandro in pantaloncini azzurri, sorridente, con la mano tesa verso di me.

Sai, bambino sussurravo ho vissuto solo per te. Ma forse è ora di vivere per me.

Mi alzai, aprii la vecchia scatola dove tenevo le risorse per i giorni neri. Contai i soldi. Sarebbero bastati per un vestito elegante, un parrucchiere, un manicure. Prenotai il saloneIl giorno del matrimonio, con la veste nuova e il cuore sereno, mi avvicinai al bambino che ora era luomo che avevo sempre sognato, e per la prima volta sentii che la mia storia aveva finalmente trovato la sua pace.

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