E perché mi sono voltato? Avrei potuto semplicemente passare oltre…
Quando prendiamo una decisione, ci convinciamo di agire per il bene, troviamo giustificazioni. All’inizio, i dubbi ci tormentano, temiamo il contraccolpo, il castigo per le nostre azioni. Ma poi nulla accade, ci calmiamo, ci convinciamo di aver fatto la cosa giusta e continuiamo a vivere, cercando di non ricordare, di non pensarci.
Finché un giorno il boomerang torna indietro. O arriva il rimorso tardivo…
Si incontrarono nei primi anni Duemila. Fabrizio raggiunse la fermata dell’autobus e aspettò. Poco distante c’era una ragazza, normale, come tante. Eppure il cuore gli sussultò nel petto. «Tra un attimo arriverà l’autobus, lei salirà e non la rivedrò mai più.» Si voltò quasi istintivamente. Un autobus era fermo al semaforo. Il cuore accelerò, spingendolo ad agire. Così Fabrizio si avvicinò alla ragazza.
«Ciao. Che autobus aspetti?»
Lei lo osservò, cercando di riconoscerlo o ricordarselo, mentre lui fissava i suoi occhi e capiva che non avrebbe mai potuto dimenticarli, né dormire in pace.
«Mi chiamo Fabrizio. Non stai aspettando il 204?»
«No», rispose finalmente sorridendo. «Il 30.»
Fabrizio tirò un sospiro di sollievo. Non aveva visto l’autobus avvicinarsi, quindi c’era tempo.
«Vivi a Quarto Oggiaro?» chiese di nuovo.
«No, vado dalla nonna.»
«Hai fretta?» domandò, già rassegnato.
«Non troppo, perché?» La ragazza lo fissava con curiosità.
Fabrizio sentì la propria voce illuminarsi:
«Vuoi fare due passi fino alla prossima fermata?»
Lei esitò un attimo, poi sorrise e annuì.
Il suo cuore batteva di emozione e gioia. Camminarono insieme fino alla fermata successiva, poi ancora un’altra… Arrivarono così al quartiere dove viveva la nonna di Beatrice, senza sentire la fatica, senza badare al tempo.
Quando Beatrice si fermò davanti alla casa della nonna, ormai sapevano già molto l’uno dell’altra, come se si conoscessero da sempre. Prima di separarsi, si scambiarono numeri e indirizzi. Entrambi erano certi di aver trovato il proprio destino.
Passò un anno pieno di incontri, fino al matrimonio. All’inizio vissero a casa della nonna di Beatrice, poi, terminati gli studi e trovato lavoro, presero un mutuo e comprarono un bilocale. Per il futuro.
Quando Beatrice gli annunciò che aspettavano un bambino, il cuore di Fabrizio gli sussultò di nuovo nel petto, come il primo giorno, quasi a dirgli: «Ehilà, papà, cosa aspetti?» E lui si sciolse in un sorriso. Sarebbe diventato padre! Improvviso, meraviglioso, travolgente.
La vita cambiò radicalmente, accelerando. Ora non facevano altro che pianificare, discutere su come sarebbe stato il bambino, quale nome scegliere. Litigavano su dove mettere la culla, quale passeggino comprare… Fabrizio fermava persino le mamme per strada per chiedere consigli su pappe e dentini.
Gli amici, già genitori, offrivano tutine e body dei loro figli cresciuti.
I giovani non vedevano l’ora di conoscere il loro primogenito. Finalmente arrivò un meraviglioso bambino con gli occhi azzurri. Quando Beatrice tornò dall’ospedale, nella stanza c’era già una culla nuova con i paracolpi, nell’armadio pile ordinati di body e vestitini, nel corridoio un passeggino moderno pronto per le passeggiate.
Il giorno in cui Fabrizio portò a casa quel fagottino tra le braccia, l’appartamento si riempì di pianti, risate e parenti festanti.
Ma alla prima visita pediatrica, Beatrice notò l’espressione seria del dottore. Con voce tremante chiese:
«C’è qualcosa che non va?»
Il medico non rispose e ordinò altri esami. Poi arrivò la diagnosi. Beatrice pianse, Fabrizio serrò la mascella, cercando di consolarla. Non ci vollero credere, sperarono in un errore. Erano giovani, sani, come era possibile?
«Parto difficile, trauma durante il travaglio…», spiegò il dottore.
Dopo giorni di disperazione, dovettero accettare la realtà. La madre di Fabrizio propose di affidare il bambino a una struttura, di non caricarsi quel peso per tutta la vita. Avrebbero potuto avere altri figli, sani.
Fabrizio non osò guardare gli occhi pieni di lacrime di Beatrice, ma disse fermamente che Davide non sarebbe andato da nessuna parte.
Il bambino cresceva, sorrideva e sembrava perfettamente normale. Speravano ancora in un errore, finché non fu il momento dei primi passi. Davide non camminò, né riuscì a stare in piedi.
Nessun medico garantì che un giorno avrebbe potuto farlo. La sedia a rotelle sarebbe stata la sua vita. «Fortuna che il cervello è intatto», dissero.
Cominciò una battaglia per la sua riabilitazione: massaggi, fisioterapia, esercizi… Beatrice lasciò il lavoro per seguirlo. I soldi di Fabrizio finivano nelle cure e nel mutuo. I genitori aiutavano come potevano.
Una domenica, Beatrice chiese a Fabrizio di portare Davide al parco mentre lei puliva casa. Lui rifiutò.
«Bea, fammi pulire io, tu portalo fuori. Capisci, tutti i bambini corrono, giocano… La gente fissa Davide nella carrozzina. È troppo grande per quello. Non reggo quei sguardi.»
Fu il primo campanello d’allarme. Ne seguirono altri.
Una volta, Beatrice propose di vendere l’appartamento e comprare una casa.
«Possiamo mettere una rampa per Davide. Potrà uscire da solo. Sarebbe meglio per tutti, soprattutto per lui. Ormai capisce tutto, si vergogna.»
«Sì, hai ragione», rispose Fabrizio, evitando il suo sguardo. «Ma non cambierebbe molto. Scusa, non ce la faccio più.»
Beatrice lo lasciò andare. I suoi occhi erano pieni di smarrimento e paura, ma non pianse. Lui cercò di non pensare al peso che le lasciava sulle spalle: le decisioni, le bollette, tutto da sola…
***
Passarono diciassette anni.
Dopo il lavoro, Fabrizio entrò in un negozio per cercare un regalo a suo padre. Compiva sessantacinque anni.
Non trovando nulla, stava per uscire quando vide una donna in un tailleur verde. Ne ammirò la figura elegante, respirò il profumo delicato che lasciava nell’aria. «Che donna…», pensò, ricordando una vecchia canzone.
La donna si fermò a frugare nella borsa. Fabrizio la superò, ma poi si voltò, curioso di vederle il volto. Lei alzò gli occhi. L’avrebbe riconosciuta tra mille. Le gambe si bloccarono, il cuore gli martellò nel petto.
Ultimamente ci pensava spesso. Si chiedeva come fosse. A volte passava davanti alla loro vecchia casa, sperando di incontrarla.
Beatrice smise di cercare nella borsa e lo fissò. Lo riconobbe anche lei. Un angolo della bocca le tremò, ma non sorrise.
«Ciao, Bea», disse Fabrizio, avvicinandosi.
Era ingrassata un po’, ma le donava. Il viso era ancora bello, reso più affascinante dal trucco sapiente. I capelli, ora corti, riccioluti alle punte. Solo gli occhi erano gli stessi.
«Ciao, Fabri», rispose.
Nei suoi occhi non c’Fabrizio la guardò allontanarsi, e per la prima volta nella vita capì che il vero rimpianto non era averla incontrata, ma averla lasciata andare.