**Diario di Lucia – L’eco di un amore perduto**
Oggi sono tornata nella mia città natale, San Giovanni, un borgo incastonato tra colline boscose e vigneti, dove l’aria profuma di zagara e le vecchie case sembrano sussurrare storie d’altri tempi. Mio marito, Matteo, ha parcheggiato l’auto e stava scaricando i bagagli, tra pacchi di dolci e regali per i miei genitori, quando l’ho vista. In lontananza, una figura familiare. Mi sono concentrata, trattenendo il respiro: era Alessandra, che camminava ridendo, appoggiata al braccio di un uomo sconosciuto. Mi ha fatto un cenno con la mano, sorridendo con naturalezza.
“Com’è possibile? Dov’è Francesco?” ho pensato, sentendo un nodo alla gola. Poi la verità è emersa, amara come un caffè lasciato troppo a lungo sul fuoco.
Avevo vent’anni quando mi trasferii da sola nella casetta che mio padre mi aveva comprato. Era un angolo tranquillo alle porte del paese, con un giardino fiorito e un laghetto dove d’estate cantavano le cicale. Papà, sempre premuroso, voleva che avessi il mio spazio, ma vicino a loro. Studiavo lettere all’università, ero seria, forse troppo. Non mi interessavano le feste, preferivo le serate tranquille con un libro e le chiacchiere con mamma e papà.
“Ci penserà più avanti, alla vita,” dicevano, rassicurati dalla mia tranquillità.
Poi arrivarono loro, i nuovi vicini: Francesco e Alessandra. Lei, alta e scura, con un portamento da regina; lui, con quel sorriso che illuminava tutto. Li invitammo a Natale, per il cenone. Portarono un vino buono e una crostata. Papà e Francesco parlarono di calcio, mamma preparò il caffè, e io osservai Alessandra, che guardava ogni angolo della casa con curiosità. Francesco, invece, era pieno di vita. Mi chiese dei miei studi, mi disse che il mondo era mio. Quella notte, non riuscii a dormire. Il suo sguardo mi aveva trafitto il cuore.
D’estate lo incontrai al laghetto, con una canna da pesca. “Vieni anche tu?” mi propose. Alessandra odiava pescare. Così cominciammo a parlare più spesso. Una volta mi scompigliò i capelli, e io, senza pensare, gli strinsi la mano contro la guancia. “Lucia, sei speciale,” sussurrò. Piansi tutta la notte, decisa a evitarlo.
Passarono tre anni di silenzi e sguardi rubati. Mi laureai, trovai lavoro, ma il mio cuore rimase incatenato a lui. Poi conobbi Matteo, un pittore che mi parlava di colori e di viaggi. Era passionale, mi portava a vedere l’alba sulle colline. Mi chiese di sposarlo, e io dissi sì, sperando di dimenticare Francesco. Ma la notte prima delle nozze lo incontrai per caso in piazza. Gli confessai tutto, tra le lacrime. Lui mi strinse le spalle. “Non rovinarti la vita. Matteo ti renderà felice.”
Dopo il matrimonio, mi trasferii con Matteo. Tornammo raramente a San Giovanni, finché oggi, mentre caricavamo i regali, vidi Alessandra con quell’uomo. “Dov’è Francesco?” chiesi. Mamma mi raccontò tutto: il divorzio, la sua partenza. Crollai su una sedia, fingendo indifferenza.
Pochi mesi dopo, uscivo dall’ufficio, pensando al bambino che aspettavo, quando sentii una voce. Era Francesco. Mi abbracciò, mi guardò negli occhi. “Come stai, piccola?” mi chiese. Io risposi: “Tu?”
“Libero come l’aria,” ammise.
Per un attimo, il cuore mi sembrò di nuovo suo. Poi lo guardai bene, e dissi: “Non posso. Matteo sta arrivando. E… sono incinta.”
Abbassò lo sguardo. “Sii felice. Io ho perso il treno.”
Se ne andò senza voltarsi. Io rimasi lì, a fissare il vuoto, fino a quando Matteo non mi portò via, verso casa nostra, dove l’amore vero, paziente, mi aspettava. E capii, finalmente, di essere felice così.