Era ancora sedicenne quando portò a casa la sua ragazza… Già incinta di un anno più grande di lui.

Aveva solo 16 anni quando la portò a casa… Una ragazza, già incinta da tempo, era più grande di lui di un anno.

Ginevra studiava nello stesso liceo, ma in un anno diverso. Per giorni, Emanuele aveva osservato quella sconosciuta rannicchiarsi in un angolo, piangere in silenzio. Non gli erano sfuggiti la pancia appena accennata, gli stessi vestiti indossati per settimane e quello sguardo vuoto, senza speranza.
Come scoprì dopo, quasi tutti conoscevano la sua storia. Il nipote di un uomo importante in città aveva avuto una relazione con lei, per poi sparire, dicendo di dover andare in un’altra regione per lavoro. I suoi genitori si erano rifiutati di riconoscerla, dicendole chiaro e tondo che non volevano averci a che fare.
I suoi, invece, come se vivessero ancora nel Medioevo, temendo lo “scandalo”, l’avevano cacciata di casa e se n’erano andati in campagna. Alcuni la compativano, altri spettegolavano alle sue spalle.
“È colpa sua. Doveva pensarci prima!”
Emanuele non poteva restare a guardare. Ci pensò bene, poi si avvicinò.
“Non sarà facile, smettila di piangere. Vieni a casa mia, ci sposeremo. Ma ti avverto: non so mentire, né fare moine. Non sarò dolce né con te né con il bambino. Ma cercherò di esserci, e ti prometto che andrà tutto bene.”

Ginevra si asciugò le lacrime e lo guardò. Cosa poteva dire? Era solo un ragazzo normale, senza fronzoli. E lei aveva sognato un fidanzato completamente diverso! Ma ormai non aveva scelta, e lo seguì.
I genitori di Emanuele furono sconvolti. Sua madre lo supplicò di riconsiderare, ma lui fu irremovibile:
“Mamma, non preoccuparti, andrà tutto bene. Ho due borse di studio, quella normale e quella sociale. Troverò un lavoretto, ce la faremo!”
“Ma volevi continuare a studiare!”
“E allora? Vivremo lo stesso. Papà ha lavorato in fabbrica tutta la vita, tu al supermercato. La gente vive anche senza laurea. Non sarà la fine del mondo!”
Ginevra si sistemò nella stanza di Emanuele. Lui le lasciò il letto e si trasferì su una scomoda poltrona letto. Per giorni rimase silenziosa, seguendolo ovunque come un’ombra, mano nella mano. Poi, all’improvviso, esplose.
“Ne ho avuto abbastanza! Perché i tuoi genitori mi guardano male? Non gli piaccio! E perché non passi mai tempo con me? Sei sempre sui libri o fuori a lavorare!”
Emanuele rimase sorpreso.

“Non credi sia normale? Sì, ai miei non piaci, ma ti hanno accettata e non ti tormentano. I tuoi parenti, invece, non ti hanno neanche voluta vedere. E i genitori del padre del bambino? Dove sono? Studio perché non voglio essere bocciato al primo anno. E non voglio perdere la borsa di studio. Esco per lavorare, non ho tempo per guardare soap opera sdolcinati.”
Ginevra scoppiò in lacrime.
“Perché sei così crudele?”
“Crudele? Ti avevo avvertito che non so mentire. A proposito, quando andiamo a firmare in comune?”

“Non posso andare così! Comprami un vestito bello, con la vita alta, così non si vedrà la pancia.”
“Ma sei seria? Dovremo presentare il certificato di gravidanza, che vestito sarà mai? Devo già risparmiare per il passeggino e la culla…”
Sua madre iniziò a vivere di valeriana e camomilla, ma piano piano si rassegnò. E più passava il tempo, più il suo sguardo si posava su vestitini da neonato. Dopo tutto, non era così terribile.
Che vivessero insieme, si sposassero, lei e suo marito li avrebbero aiutati. Ma Ginevra sembrava sempre insoddisfatta: irritata da Emanuele, da loro, dall’appartamento piccolo. Pazienza, forse dopo il parto sarebbe cambiata.
Ma Ginevra non aveva intenzione di cambiare. Quando Emanuele, tornato sporco e sudato dal lavaggio auto, portò a casa una gatta, lei arrossì di rabbia e urlò.
“Sei un idiota! A cosa ci serve questa gatta spelacchiata? Buttala fuori! Io non la voglio in casa!”
Ma Emanuele rispose:
“No, sta per avere i gattini. Resta qui, non discutere. Piuttosto, scaldami qualcosa da mangiare.”

“Ah, ecco!” strillò Ginevra. “Scegli! O lei o io! Anche quella gatta mi guarda male!”
“Perché?” Emanuele la fissò stupito. “Sono a casa mia, non devo scegliere nulla. La gatta resta, se non ti va bene, puoi andartene. Nemmeno mia madre mi ha mai messo di fronte a una scelta del genere. Forse dovresti smetterla di guardare tutti male?”
Ginevra piangeva, si disperava, era gelosa di quella gatta magra e spelacchiata. E dove mai Emanuele aveva visto la pancia? Ma la pancia c’era davvero: la gatta aspettava i cuccioli.
Lui era stanco, ma ogni volta che il rimpianto iniziava a insinuarsi nella sua mente, lo cacciava via. Ce l’avrebbero fatta. Ginevra avrebbe partorito, si sarebbe calmata, e prima ancora, la gatta li avrebbe rallegrati. I gattini avrebbero portato serenità.

Ma andò tutto diversamente… Il nonno, l’uomo importante, tornò da un lungo viaggio d’affari e scoprì tutto. Trovò il nipote, lo rimproverò e minacciò di tagliarlo fuori dai suoi favori se il pronipote fosse cresciuto in una famiglia estranea. E il nipote non aveva certo intenzione di perdere quei privilegi.
Ginevra lasciò il liceo con lui, dimenticandosi di Emanuele. Per fortuna aveva i documenti con sé (doveva andare in consultorio dopo scuola). Lasciò perdere le sue cose: gliene avrebbero comprate di nuove! E a quel liceo squallido non avrebbe mai più messo piede!
Emanuele era distrutto. Come era possibile? Non si era neanche salutata, non una chiamata, non una parola. Gettò via tutte le sue cose e rimase a lungo seduto al buio, stringendo la gatta al petto.
Lei capiva tutto e si rannicchiava contro di lui, silenziosa, sentendo di essere necessaria. Fusa e conforto.
Emanuele l’assistette durante il parto, tenendo lontani sua madre nervosa e suo padre confuso. Parlava alla gatta, la calmava, controllava che tutto procedesse bene. Teneva il telefono pronto per chiamare il veterinario.
Andò tutto bene: nacquero quattro gattini. Cambiò la coperta, mise acqua e cibo vicino alla mamma. Ancora una volta, si assicurò che tutto fosse a posto e, esausto, andò a dormire. Nella frenesia, si dimenticò che quello era il giorno del suo compleanno.

Aveva appena compiuto 17 anni…

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