**L’Eredita**
Nell’ampio appartamento antico regnava un’insolita animazione. Il campanello squillava in continuazione, la porta si apriva e ogni volta entrava un parente. Questa volta fu un uomo robusto, con un costoso completo che si tendeva sul ventre prominente.
Una donna pallida e insignificante gli rivolse un sorriso acido, mentre l’uomo si alzò dal divano per andargli incontro.
«Stefano! Credevo non saresti venuto.» Si strinsero la mano. «Siediti, raccontami come va la vita.»
La donna, contrariata, si spostò all’altro lato del divano, facendo posto ai fratelli.
«Davvero la moglie di Gianni? Con tutte le donne che ha avuto, si è sposato con una così…» Stefano non trovò le parole.
Il campanello risuonò di nuovo. Tutti e tre si voltarono verso la porta. Aspettavano solo colui che ora sarebbe entrato. Nell’ingresso apparve un uomo alto, con pantaloni neri e un maglione blu scuro che metteva in risalto la bianchissima camicia.
Bruno salutò freddamente, si guardò intorno e si sedette su una poltrona consunta nell’angolo opposto della stanza.
«Che damerino è diventato Bruno», pensò Stefano. Lo riconobbe subito, anche se non lo vedeva da trent’anni. Eccoli riuniti, i tre fratelli, i tre eredi. Si erano radunati come avvoltoi attorno alla carcassa. Stefano aveva sperato che nessuno, in particolare Bruno, si sarebbe presentato.
I tre fratelli erano stati convocati per salutare Anna Giovanna. Era scritto chiaramente: «per salutarla». E, per ogni evenienza, l’indirizzo era stato indicato, nel caso lo avessero dimenticato.
Stefano viveva ormai da tempo in un’altra città con la sua famiglia. Un buon lavoro, un appartamento, l’automobile, due figlie, una già nonna. A lui, in fondo, l’eredità della zia non serviva. Era venuto solo per curiosità.
Un tempo, l’appartamento gli era sembrato enorme. Aveva paura degli angoli buoi, dell’enorme orologio a pendolo e dei mobili pesanti.
Quando il padre cadde dai ponteggi del cantiere e morì, la madre si oscurò dal dolore. Come avrebbe cresciuto da sola tre ragazzi? Il più piccolo, Gianni, non aveva nemmeno cinque anni. La vita diventò dura e faticosa. Un giorno arrivò il fratello maggiore della madre, di cui i bambini non avevano mai sentito parlare, e si offrì di prendere con sé almeno i due più grandi.
Lui e sua moglie non avevano figli. La madre si sarebbe ripresa e poi li avrebbe riportati a casa. Lo zio diede dei soldi alla donna e portò via i ragazzi. La madre, consumata dalla solitudine, cadde nell’alcol e presto morì.
La zia Anna si rivelò severa e distante. Nutriva e vestiva i ragazzi, cercando di amarli. Stefano, il maggiore, capì presto che quella era un’occasione per farsi strada nel mondo. Cercò in ogni modo di compiacere lo zio e sua moglie.
Bruno, invece, si chiuse in sé stesso, rifiutandosi di costruire un legame con i nuovi parenti. Dopo la scuola, a differenza di Stefano, non si iscrisse all’università. Tornò nella sua città natale, nell’appartamento dei genitori. Trovò lavoro e studiò da privatista. Lo zio gli mandò dei soldi, ma Bruno li restituiva con la scritta: «Non ne ho bisogno».
Stefano, all’ultimo anno di università, si sposò e si trasferì a Roma, dai genitori della moglie. Il più giovane, Gianni, crebbe ribelle, vivendo una vita sregolata. In ogni famiglia c’è una pecora nera, si dice.
«L’appartamento ha bisogno di una ristrutturazione. Poi lo si potrà vendere a un buon prezzo. E questi mobili non si trovano più—sono pezzi d’antiquariato. Robusti, massicci. Nella vetrina c’è un servizio di cristalli di Boemia. E poi ci saranno i depositi bancari, probabilmente. Anche se negli anni Novanta e Duemila molti risparmi sono svaniti…» Stefano si riprese, accorgendosi di aver sognato a occhi aperti.
Distratto, gettò sguardi intermittenti verso Bruno. Lui se ne stava impassibile, con le gambe incrociate. Gianni bisbigliava con la moglie, osservando di tanto in tanto i fratelli. «Bruno è un reietto, non era benvoluto dallo zio e dalla zia. Gianni sperpererà la sua parte…» Stefano si considerava il più degno dell’eredità.
Ad accoglierli nell’appartamento era stata una ragazza carina. Forse l’infermiera della zia. Proprio mentre ci pensava, una sedia a rotelle entrò nella stanza, portando una vecchia signora. La testa le pendeva sul petto, le gambe coperte da una spessa coperta.
La ragazza sistemò la sedia in modo che la vecchia potesse vedere tutti. In contrasto con lei, sembrava ancora più attraente e giovane. Per i fratelli, la comparsa della parente in vita fu una sorpresa.
Stefano tentò di calcolare quanti anni potesse avere. Ottant’anni, forse più. E perché aveva pensato che fosse morta? Il telegramma diceva solo che era invitato a salutare Anna Giovanna. Per questo aveva creduto che fosse già spirata.
Con curiosità e un vago timore, Stefano osservò il volto rugoso e macchiato di lentiggini della zia. I capelli grigi, rigidi come fili di ferro, s’irradiavano in ogni direzione. Le mani deformate dall’artrite, con vene gonfie, riposavano sui braccioli. La fissò, ancora sconvolto dal tempo che aveva consumato quella donna un tempo fiera ed elegante.
«Anna Giovanna è felice di vedervi tutti», disse la ragazza con tono vivace.
«Su sua richiesta, vi ho rintracciati e invitati qui. Scusate se il telegramma è stato frainteso. Voleva vedervi per sistemare la questione dell’eredità, evitare litigi in futuro.»
«Interessante. Quindi le nostre preferenze saranno considerate?» chiese Stefano, rinvigorito.
«Non proprio. Intanto, prendiamo un caffè. Mi date una mano?» si rivolse alla moglie di Gianni.
«E tu chi sei?» la interruppe Stefano.
«Sono Vera, sua nipote», rispose improvvisamente la voce gracchiante di Anna Giovanna.
Stefano la fissò, poi rivolse lo sguardo a Bruno. Lui rimase imperturbabile. Gianni, invece, si agitò sul divano.
«La figlia di Gianni? Un’altra erede. Non era previsto. Bisognerà dimostrare la parentela», pensò Stefano, osservando la schiena di Vera.
Nella stanza rimasero solo i fratelli e la zia.
«Grazie per essere venuti», disse con voce roca. «Pensavate che fossi morta, vero? Non siete venuti per me, ma per l’eredità. Ebbene, ognuno avrà ciò che si merita. Solo, vi prego, non litigate sulla mia tomba se il testamento non vi soddisferà.»
«C’è davvero motivo di litigare?» chiese Stefano.
«Sei cambiato. Bruno, sono felice di rivederti, anche se non mi hai mai amata. Gianni, sei rimasto lo stesso monello di un tempo», gracchiò la zia.
«Sono vecchia, ma non rincitrullita.» Abbassò di nuovo la testa e chiuse gli occhi. A Stefano parve che si fosse assopita. I fratelli si scambiarono silenziose occhiate.
Poco dopo, Vera entrò e li chiamò per il caffè. Gianni se ne andò con sollievo,Bruno rimase ancora qualche attimo nella stanza, scrutando il volto della zia con una strana malinconia, mentre Stefano si chiedeva se avrebbe mai rivisto quell’appartamento che un tempo aveva temuto e che ora gli sfuggiva tra le dita come sabbia.