Facciano pure finta che la mia vita sia un sogno!

Che pensino pure che mi sia andata di lusso nella vita.

Alessia detestava il suo nome, e ancora di più il cognome: Ghirardelli. I ragazzi, si sa, sono spietati con i compagni. Fin dalle elementari, ad Alessia era toccato il soprannome “Ghiro”.

Si osservava allo specchio e sognava capelli biondi e lunghi come quelli di Sofia Bianchi, le gambe slanciate di Chiara Romano o, almeno, genitori alla moda come quelli di Martina Ferrara, la secchiona bruttina per cui arrivava sempre l’autista con la Mercedes. “Perché mamma ha dovuto sposare papà con un cognome così orribile? Avrebbe dovuto pensarci, a come sarebbe stato per me. Io sposerò solo un uomo con un cognome normale, o meglio ancora, straniero,” sospirava tra sé.

La infastidivano quei ricci scuri, ribelli, che sfuggivano a ogni pettine e fermaglio. I suoi occhi verdi su una pelle dorata sembravano affascinanti e misteriosi, ma nemmeno quelli le piacevano.

La mamma faceva la contabile in un ospedale, il padre guidava l’autobus. I soldi in casa non bastavano mai. Lui risparmiava per comprarsi un’auto e controllava con pignoleria che non si sprecasse un solo euro. “Non serve vestirsi di lusso, qui si campa come si può,” borbottava se notava qualcosa di nuovo addosso alla figlia. Spesso le toccava indossare i vestiti usati della cugina, e solo raramente qualcosa di nuovo, se alla cugina non piaceva. Quanto la esasperava tutto questo! Se solo avesse avuto genitori normali, nessuno l’avrebbe chiamata “Ghiro”.

Poco prima degli esami di maturità, arrivò a trovarli una delle sorelle di suo padre, zia Elvira. Lavorava come domestica per una famiglia ricca in Germania.

“Se vuoi, posso dirti come andarci,” le sussurrò una sera, mentre dividevano la stanza.

“Certo!” esclamò Alessia, illuminandosi.

“Piano! Mario non approverebbe. Hai già diciotto anni?”

“Sì, compiuti a gennaio.” Il cuore di Alessia batteva forte.

“Perfetto. Non serve il permesso dei genitori. Fa’ come ti dico e tutto andrà bene. Mario è sempre stato un tirchio.”

Zia Elvira sembrava una vera signora tedesca. Nessuno avrebbe mai detto che faceva la domestica. “L’importante sono i soldi, chi se ne frega di come si fanno,” diceva.

Alessia si innamorò di quell’idea. Zia Elvira le diede dei soldi, promettendosi che li avrebbe restituiti quando avesse trovato lavoro.

Seguì i suoi consigli alla lettera. Per finta, per non insospettire i genitori, si iscrisse a un corso da estetista. Ma quando arrivò la chiamata dalla Germania, mollò tutto, impacchettò le sue cose, lasciò un biglietto e partì.

A Monaco, zia Elvira la prese e la portò in una villa enorme ai margini della città, dove Alessia avrebbe dovuto badare a un’anziana signora di ottant’anni malata.

“Non deludermi. Non rubare. Ho dato la mia parola per te,” ammonì la zia, mentre Alessia tremava per l’audacia del suo gesto.

Quella casa lussuosa la lasciò senza fiato. Le fu assegnata una stanzetta accanto alla camera della vecchia. Alessia era felice di non dover pagare un affitto. Per qualche soldo in più, puliva anche la casa due volte a settimana. Usciva di rado. La Germania, per lei, era ridotta a quelle mura e a un prato perfetto visto dalla finestra. Ma non le importava. “Un anno volerà via. Non sarò per sempre una badante. Metterò da parte i soldi, imparerò la lingua e poi si vedrà.”

Diventò tirchia come suo padre. Del resto, non aveva tempo né modo di spendere. Quando i padroni erano fuori, si faceva selfie tra i mobili di lusso del salone e li postava sui social. “Che pensino pure che mi sia andata di lusso nella vita.”

Le ex compagne le mettevano like, invidiose. Nessuno la chiamava più “Ghiro”; ora la interpellavano per nome, chiedendole come avesse fatto. Lei rispondeva evasiva.

Un giorno, un ex compagno, Matteo, commentò una sua foto. Iniziarono a scriversi. Lui era vago su di sé: lavorava in un’officina con suo padre, guadagnava bene, si era appena comprato un’Audi. Postò una foto accanto a una macchina rossa sfavillante.

Ma presto i messaggi si fecero più romantici. Le diceva che gli mancava, chiedeva quando sarebbe tornata. Alessia rispondeva che non aveva intenzione di farlo, era troppo bello vivere all’estero. Capiva che la sua storia tedesca influenzava i suoi sentimenti, ma Matteo insisteva: le piaceva da sempre, fin dalle medie. Era vero, a scuola la guardava spesso. Aveva voglia di credergli. E ci credeva.

Una sera, i padroni uscirono per una cena. Di solito rientravano all’alba. L’anziana dormiva già. Alessia entrò nel guardaroba della signora e provò un vestito rosso a bretelle sottili. Le stava a pennello. La tedesca era magra e piatta, mentre lei aveva curve da far girare la testa. Si guardò allo specchio e, per la prima volta, si piacque.

Versò del vino in un bicchiere e iniziò a filmarsi col telefono, seduta sul divano del salone, con quadri di paesaggi alle spalle… Postò tutto sui social con frasi tipo: “Tornata da una serata elegante… Troppo stanca per cambiarmi. Un bicchiere per rilassarmi…”

Bevve davvero quel vino. Poi un altro. E si addormentò lì, sul divano, ancora vestita.

La svegliarono le urla della padrona. Parlava un tedesco così veloce che Alessia non capì nulla. Solo quando la donna puntò un dito nodoso verso la porta, capì: la stava cacciando. La signora non si fece problemi a strappare le sue cose dalla stanza e a buttarle ai piedi di quella stupida ragazza che si credeva chissà chi.

Alessia infilò tutto in valigia tra le grida della donna: “Raus!” Quello lo capì. Mentre usciva, vide il suo riflesso nello specchio e sorrise con soddisfazione: non si era tolta quel vestito magnifico. Ma la gioia durò poco. All’ultimo, la padrona si ricordò e la richiamò.

Con calma, Alessia si sfilò il vestito, sotto cui indossava solo le mutandine. Lo sguardo untuoso del marito della signora, calvo e grasso, le scivolò sul corpo nudo. Poi si rimise i jeans e la maglia, mentre l’uomo parlava concitato alla moglie. Forse la pregava di perdonare la ragazza. La signora iniziò a urlargli contro.

Alessia scrollò le spalle e se ne andò, lasciandosi alle spalle la lite. Camminando, ripensò a come l’aveva guardata quell’uomo. “Se mi avesse notata prima, avrebbe cacciato quella strega e io sarei diventata la padrona…”

Se avesse saputo la lingua, avrebbe cercato altro lavoro. Ma senza tedesco e senza referenze, era impossibile. Chiamò zia Elvira, ma era fuori città. Le chiese di aspettare una settimana. Ma dove? Per non finire nei guai con la polizia, decise di tornare in Italia. Aveva vissuto quasi un anno lontana da casa. Aveva risparmiato. Se suo padre non aveva ancora comprato la macchina,Tornata a Milano con la valigia ancora piena di sogni spezzati, Alessia capì che forse la felicità non stava nei vestiti di lusso o nelle bugie condivise, ma nella semplicità di essere se stessa, senza maschere né soprannomi.

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