Faccio come voglio, questa è casa mia. Se non ti piace, vattene!

“Faccio quello che voglio! Questa è casa mia anche! Se non ti piace, vattene!” urlò Alessandro, guardando torvo la madre.

Lucia uscì dal palazzo con gli occhi annebbiati dalle lacrime. Si trascinò fino alla panchina del parco giochi e vi si lasciò cadere pesantemente. Si strinse meglio nel trench. Nonostante fossimo a metà giugno, le serate restavano fresche, e il caldo promesso dai meteorologi non era mai arrivato.

Rabbatté le spalle, infilò le mani in tasca. Sarebbe rimasta lì finché non si fosse congelata del tutto, e poi? Dove andare? Una vita vissuta, e ora il figlio la cacciava di casa. Singhiozzò smarrita. Aveva sempre abitato in quell’appartamento, da lì era partita per il municipio per sposarsi, lì aveva portato il piccolo Alessandro quando era nato. E ora…

***

“Mamma, con la classe andiamo a Milano per il ponte del Primo Maggio!” annunciò Sandro varcando la soglia e lasciando cadere lo zaino per terra.

“Mamma, mi ascolti?” Si era già avvicinato alla cucina, mentre lei sbucciava le patate al lavandino. Guardandole la schiena irrigidita, capì che difficilmente avrebbe visto Milano. Ma tentò comunque.

“Mamma, mi dai i soldi?” Chiese, alzando la voce per farsi sentire sopra il rumore dell’acqua.

“Quanti?” rispose lei senza voltarsi.

“Il treno, l’albergo, i musei, i pasti…” recitò Sandro come un mantra.

“QUANTI?” ripetè irritata, gettando una patata nella pentola. Schizzi d’acqua le bagnarono il viso e la blusa.

Lucia lanciò il coltello nel lavandino e si girò.

“Capito,” mormorò Alessandro abbassando la testa e trascinandosi verso la sua stanza.

“Non ho soldi da buttare. Non li stampo, li guadagno. A settembre devi avere scarpe nuove, quelle vecchie le hai sfondate. E il cappotto ti sta stretto alle caviglie,” la voce della madre lo raggiunse mentre apriva la porta, spingendolo metaforicamente dentro.

Sandro chiuse la porta, ma le parole di lei varcarono ugualmente la soglia, seppure più smorzate.

“Andranno tutti tranne me,” borbottò tra sé. “Anch’io voglio andare a Milano!” urlò poi, più forte. La voce gli si spezzò, trattenendo a stento le lacrime.

La mamma probabilmente non lo aveva sentito, ma sembrò quasi rispondere:

“Avrai tempo di viaggiare. Quando sarai grande e guadagnerai, potrai andare persino in America!” gridò dalla cucina.

Sandro inghiottì il pianto.

“E tuo padre chiedilo, lui! Non ti ha mai comprato neanche un giocattolo in più. Per i compleanni regalava macchinine da due soldi. A parte gli alimenti, non spenderebbe un euro per te. E cosa compri con quattro spicci? Cresci, ti si rovina tutto, e sai quanto costa vestirti?!” continuava la litania dalla cucina.

Sandro si infilò le cuffie, ma la voce di lei bucava anche quelle. Si asciugò gli occhi col pugno. Perché non ci aveva pensato prima. Quando se n’era andato, il padre gli aveva detto: “Se hai bisogno, chiamami.” E quel momento era arrivato. Decise di non perdere tempo e telefonare. Ma non aveva un cellulare.

Aprì la porta piano e sbirciò. La madre sbatteva le pentole in cucina, mormorando tra sé. Sandro sgattaiolò nell’ingresso, infilò le scarpe e uscì, chiudendo la porta senza far rumore. Scese le scale di corsa e bussò all’appartamento di Davide, il suo amico, che aveva il telefono fisso.

Davide aprì, sorpreso e contento di vederlo.

“Devo fare una chiamata,” disse Sandro, afferrando la cornetta sul mobiletto. Compose il numero, ansimando mentre aspettava.

Stava per riagganciare quando qualcuno rispose.

“Papà, ciao!” esclamò allegro.

“Chi parla?” chiese una voce fredda.

Sandro incrociò lo sguardo confuso di Davide e distolse gli occhi.

“Sono io, Sandro.”

“Chi?”

“PAPÀ?! P-Papà—” Ma dall’altra parte c’era già il tono di occupato.

Rimise giù la cornetta, a un passo dal piangere.

“Che succede?” chiese Davide.

“Non andrò a Milano. La mamma non ha soldi, e mio padre… beh, mio padre non sa neanche chi sono.”

“Posso chiedere ai miei, dico che è importante! Ti presto io i soldi!” propose l’amico.

“No. Scoprirebbero e te le suonerebbero. Resterò qui.”

Uscì lentamente.

Quando era piccolo, la mamma lo baciava, lo chiamava “sole mio” e “cucciolo”, e gli comprava giocattoli anche senza che li chiedesse.

Poi era cambiata. Dopo che il padre se n’era andato, era diventata sempre più irritabile, cattiva. Gridava, lo sgridava per ogni cosa, a volte lo schiaffeggiava. E un ceffone faceva più male di una sculacciata. Non una parola dolce, solo rimproveri.

Aveva persino pensato di scappare. Ma senza soldi, non andava lontano. A undici anni, nessuno lo avrebbe assunto.

“Non ho chiesto io di nascere. Se fossi nato dai genitori di Davide, vivrei come un re…” pensò, risalendo le scale di casa.

A quattordici anni, era già abituato alle urla. Semplicemente, usciva e vagava per strada. Oppure si chiudeva in camera con la musica a tutto volume.

Al liceo iniziò a cercare affetto altrove, uscendo con le ragazze. Ma se una si rifiutava di baciarlo, la lasciava subito, come avrebbe voluto fare con la madre. Tornava a casa solo per dormire. Di notte rimaneva sveglio, maledicendo la sorte, la madre, il padre assente e tutta la sua vita sfortunata.

Non studiava, ma ogni tanto prendeva anche qualche sette. Provò di tutto—sigarette, vino, vodka, erba. Ma i soldi scarseggiavano, e smise presto, senza farne un vizio.

Una volta tornò all’una e mezza di notte. La madre lo aspettava nell’ingresso, esplodendo in urla. Quando alzò la mano per colpirlo, Sandro le afferrò il polso e strinse forte. La mamma sussultò per il dolore.

“Non urlarmi più addosso! CAPITO?!” ruggì, spingendola via e sbattendo la porta con tale forza che lo scrostò dal soffitto.

Ma prima vide la paura nei suoi occhi.

Da allora, non ci furono più schiaffi. Ma le urla continuarono.

Col tempo, il rapporto peggiorò. Forse la madre avrebbe voluto cambiare, ma era ormai abituata così. Sandro si chiuse in un guscio di indifferenza, e le parole di lei rimbalzavano senza toccarlo.

Dopo il diploma, partì per il servizio militare. Era quasi felice. Meglio la naja che vagare e litigare. Tornato a casa, avrebbe trovato lavoro e una strada sua…

Ma in caserma, le mancava. Leggeva le sue lettere sobrie, che finivano sempre uguali: “Stai attento. Tua madre.”

Quando tornò, lei lo abbracciò, singhiozzando. Poi tutto riprese come prima. Lui usciva, rientrava all’alba. Lei urlava, piangeva.

Se gli chiedeva qualcosa, rispondeva: “Non ho tempo. PiùLucia sorrise tra le lacrime quando Sandro le posò una coperta sulle gambe, e per la prima volta in anni, sentì che forse, non tutto era perduto.

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