Faccio come voglio! Questa è la mia casa. Se non ti piace, vattene!

“Fa’ quello che voglio! È anche casa mia. Se non ti va bene, vattene!” urlò Alessandro, fissando la madre con uno sguardo torvo.

Ludovica uscì dal portone. Le lacrime le annebbiavano la vista. Arrivò a un panchino nel parco giochi e vi si lasciò cadere, pesantemente. Si strinse più forte il cappotto attorno al corpo. Sebbene fosse quasi metà giugno, le sere e le notti erano ancora fredde. Il caldo promesso dai meteorologi non era mai arrivato.

Si raggomitolò su sé stessa, infilando le mani nelle tasche. Sarebbe rimasta lì finché non si fosse congelata del tutto, ma poi? Dove andare? Aver vissuto tanto per essere cacciata di casa dal figlio. Un singhiozzo le sfuggì mentre fissava il vuoto. Aveva trascorso tutta la vita in quella casa, era partita da lì per andare in comune a sposarsi, vi aveva portato il figlio appena nato. Il figlio…

— Mamma, con la classe andremo a Firenze per il ponte del Primo Maggio — annunciò Sandro entrando, lasciando cadere lo zaino a terra.

— Mamma, mi senti? — era già sulla porta della cucina, osservando la madre che sbucciava patate al lavello. Guardandole la schiena irrigidita, capì che difficilmente sarebbe andato a Firenze. Ma tentò comunque.

— Mamma, mi dai i soldi? — chiese, alzando la voce per sovrastare il rumore dell’acqua.

— Quanti? — rispose lei senza voltarsi.

— Il viaggio andata e ritorno, l’albergo, i soldi per mangiare e i musei… — recitò a memoria Sandro.

— Quanti?! — ripeté la madre, irritata, gettando una patata nella pentola. Gli schizzi le colpirono il viso, bagnandole il vestito sul petto.

Ludovica lanciò il coltello nel lavello e si girò verso il figlio.

— Capisco. — Alessandro abbassò lo sguardo e se ne andò nella sua stanza.

— Non ho soldi da buttare. Non li disegno, li guadagno. A settembre devo comprarti scarpe nuove. Quelle vecchie le hai usate fino a primavera. E hai bisogno di una giacca, le maniche sono troppo corte. — La voce della madre lo raggiunse mentre apriva la porta della sua camera, spingendolo metaforicamente dentro.

Alessandro chiuse la porta. Ma le parole di lei riuscivano comunque a entrare, anche se meno chiare.

— Tutti ci andranno, io no — borbottò tra sé e sé. — Anch’io voglio andare a Firenze! — urlò poi più forte.

La voce gli si spezzò, lasciando trapelare lacrime che cercava di trattenere.

La madre probabilmente non lo sentì, ma gli sembrò quasi che gli rispondesse:

— Avrai tempo per viaggiare. Quando sarai grande, lavorerai e potrai andare persino in America! — gridò dalla cucina.

Sandro inghiottì le lacrime.

— Chiedili a tuo padre, se vuoi. Non ti ha mai comprato neanche un giocattolo in più. Per il compleanno solo macchinine economiche. Non ha mai speso un euro in più oltre al mantenimento. E cosa ci compri con quei soldi? Cresci, i vestiti ti durano poco, e sai quanto costano? — continuava dal cucina.

Alessandro si mise le cuffie, ma la voce della madre riusciva comunque a penetrarle. Si asciugò le lacrime con il pugno. Perché non ci aveva pensato prima? Quando il padre se ne era andato, gli aveva detto che se avesse avuto bisogno, gli chiedesse. Era il momento. Decise di non perdere tempo e di chiamarlo. Ma non aveva un cellulare.

Aprì piano la porta e sbirciò fuori. La madre sbattendo le pentole in cucina, borbottava tra sé. Sandro scivolò silenzioso nell’ingresso, infilò le scarpe e uscì di casa, chiudendo la porta piano per non far rumore. Scendendo le scale di corsa, corse nel vicino palazzo, da Davide Neri. Loro avevano il telefono di casa.

Davide aprì la porta, felice di vederlo.

— Devo fare una chiamata — disse, prendendo il telefono sul tavolino. Comporre il numero rapidamente e si portò la cornetta all’orecchio, cercando di riprendere fiato mentre aspettava la risposta.

Stava per riagganciare quando qualcuno rispose.

— Papà, ciao! — esclamò Sandro, felice.

— Chi è? — chiese il padre, distante.

Sandro incrociò lo sguardo perplesso di Davide e si girò.

— Sono io, Sandro.

— Quale Sandro?

— Papà?! — urlò disperato, ma dall’altra parte sentì solo il tono di chiamata interrotta.

Rimise giù la cornetta e fu sul punto di scoppiare a piangere.

— Che succede? — chiese Davide.

— Non vado a Firenze. La mamma non ha soldi, e mio padre se ne è lavato le mani.

— Potrei chiederli ai miei. Direi che è importante. Ti presto io i soldi.

— No. I tuoi lo scoprirebbero, e faresti una brutta fine. Resterò qui. — Sandro uscì dall’appartamento dell’amico.

Quando era piccolo, la madre lo baciava, lo chiamava affettuosamente “cucciolo”, “sole” e gli comprava giochi, anche senza che glieli chiedesse.

Poi era cambiata. Il padre se n’era andato, e lei era diventata irritabile, cattiva, gridava spesso, lo sgridava duramente quando combinava guai, a volte lo sculacciava o gli dava uno schiaffo. E quello era più umiliante di una sberla. Non una parola gentile, solo urla e spintoni.

Alessandro aveva persino pensato di scappare di casa. Ma senza soldi non sarebbe andato lontano. Aveva solo undici anni, nessuno lo avrebbe assunto.

*Non ho chiesto io di nascere. Che sfortuna. Fossi nato dai genitori di Davide, avrei avuto una vita felice…* pensò, salendo le scale verso casa.

A quattordici anni, si era abituato alle urla della madre al punto da ignorarle. Usciva e vagava per le strade, oppure si chiudeva in camera con le cuffie, alzando la musica al massimo.

Alle superiori, cercava affetto altrove, uscendo con le ragazze. Ma se una si rifiutava di baciarlo, la lasciava subito, come avrebbe voluto fare con la madre. Tornava a casa solo per dormire. Di notte, rimaneva sveglio, maledicendo il destino, la madre, il padre assente e la sua vita infelice.

Non studiava, ma a volte riusciva a prendere anche un sette. Provò di tutto: sigarette, vino, vodka, persino l’erba. Ma i soldi finivano sempre, e smise presto, senza diventarne dipendente.

Una volta tornò a casa all’una e mezza di notte. La madre era ancora sveglia e lo aspettava in ingresso, pronta a urlare. Quando alzò la mano per colpirlo, Alessandro le afferrò il polso stringendo forte. Lei gemette per il dolore.

— Non urlarmi addosso! Hai capito?! — ruggì, respingendola. Entrò nella sua camera sbattendo la porta con tale forza che scrostò l’intonaco dal soffitto. Ma prima, aveva visto la paura nei suoi occhi.

Non cercò mai più di picchiarlo, anche se continuava a gridare come sempre.

Giorno dopo giorno, il loro rapporto peggiorava. Forse la madre avrebbe voluto cambiare, ma era ormai abituata a quella routine. Alessandro si chiuse in se stesso, in una corazza che non permetteva a nessuno di entrare. Le urla dellaE lentamente, giorno dopo giorno, tra silenzi e piccoli gesti, madre e figlio impararono a riparare ciò che era stato spezzato, trovando infine, nei loro cuori stanchi, il perdono e un amore più forte di ogni dolore.

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