“Quello che voglio, lo faccio! E questa è casa mia anche. Se non ti piace, vattene!” urlò Alessandro, guardando la madre dall’alto in basso.
Luigia uscì dal portone con gli occhi annebbiati dalle lacrime. Arrivò alla panchina del parchetto e vi si sedette, pesante come un macigno. Si strinse meglio il cappotto addosso. Anche se era la metà di giugno, le serate erano ancora fresche. Il caldo promesso dai meteorologi non era mai arrivato.
Si raggomitolò su sé stessa, infilando le mani nelle tasche. Sarebbe rimasta lì finché non avesse avuto troppo freddo, ma poi? Dove sarebbe andata? Aveva toccato il fondo: cacciata di casa da suo figlio. Singhiozzò, disperata. Aveva vissuto tutta la vita in quella casa, era partita da lì per andare in municipio a sposarsi, vi aveva portato il figlio appena nato. E ora…
***
“Mamma, la mia classe va a Firenze per il ponte del 25 aprile,” annunciò Sandrino buttando lo zaino a terra appena entrato.
“Mamma, mi ascolti?” Era già in cucina e la fissava mentre lei sbucciava le patate al lavandino. Guardandole la schiena rigida, capì che difficilmente sarebbe partito. Ma ci riprovò.
“Mamma, mi dai i soldi?” chiese, alzando la voce per farsi sentire sopra il rumore dell’acqua.
“Quanti?” rispose lei, senza voltarsi.
“Il treno, l’albergo, i soldi per mangiare e i musei…” elencò meccanicamente.
“Quanti?” ripeté irritata, buttando una patata nella pentola. Gli schizzi le bagnarono il vestito e il viso.
Luigia gettò il coltello nel lavello e si girò di scatto.
“Capisco,” mormorò Alessandro, abbassando la testa e trascinandosi in camera sua.
“Non ho soldi da buttare. Non me li invento, li guadagno. Devi scarpe nuove per l’autunno, quelle vecchie le hai sfondate. E la giacca ti sta stretta,” la voce della madre lo raggiunse mentre spalancava la porta della sua stanza, spingendolo metaforicamente dentro.
Alessandro chiuse la porta, ma le parole di lei riuscivano comunque a entrare, anche se più indistinte.
“Andranno tutti, tranne me,” borbottò tra sé. “Anch’io voglio andare a Firenze!” urlò poi, più forte. La voce gli si ruppe, trattenendo a fatica le lacrime.
Forse la madre non lo aveva sentito, ma rispose come se avesse capito:
“Avrai tempo per viaggiare. Quando sarai grande, guadagnerai e potrai andare pure in America!” gridò dalla cucina.
Sandrino ingoiò i singhiozzi.
“E tuo padre, chiedi a lui! Non ti ha mai comprato un giocattolo decente. Per il compleanno regalini da due soldi. Mai un euro in più degli alimenti. E con quei pochi spiccioli cosa compri? Cresci in fretta, i vestiti costano…” continuava dalla cucina.
Alessandro si mise le cuffie, ma la voce acuta della madre riusciva a penetrare anche quelle. Si asciugò le lacrime con un pugno. Come non ci aveva pensato prima? Quando il padre se n’era andato, gli aveva detto: “Se hai bisogno, chiamami.” Era il momento. Decise di non aspettare e di chiamarlo subito. Ma non aveva il cellulare.
Apriò piano la porta e sbirciò fuori. La madre armeggiava tra pentole in cucina, borbottando tra sé. Scivolò silenzioso nell’ingresso, infilò le scarpe e uscì, chiudendo la porta piano per non far rumore. Scese di corsa le scale e si diresse verso il palazzo accanto, da Fabrizio Neri. Loro avevano il telefono di casa.
Fabrizio aprì e sorrise vedendolo.
“Devo fare una chiamata,” disse Sandrino, prendendo il telefono dal mobiletto. Compose il numero veloce e attese, ansimando.
Stava per riattaccare quando qualcuno rispose.
“Papà, ciao!” esclamò felice.
“Chi parla?” chiese l’uomo, freddo.
Alessandro incrociò lo sguardo confuso di Fabrizio, poi si girò.
“Sono io, Sandrino.”
“Quale Sandrino?”
“Papà?!” urlò disperato, ma sentì solo il tonfo della cornetta.
Rimise a posto il telefono e trattenne a stento le lacrime.
“Che è successo?” chiese Fabrizio.
“Non andrò a Firenze. Mia madre non mi dà i soldi e mio padre fa finta di non conoscermi,” sbottò.
“Posso chiedere ai miei. Gli dico che è importante. Ti presto i soldi io,” propose Fabrizio.
“No. I tuoi lo scoprirebbero e tu finiresti nei guai. Farò senza.” Uscì dall’appartamento dell’amico.
***
Da piccolo, la madre lo baciava, lo chiamava “tesoro” e gli comprava giocattoli anche senza che li chiedesse.
Poi era cambiata. Dopo che il padre se n’era andato, era diventata irritabile, cattiva. Urlava spesso, lo sgridava per ogni sciocchezza, a volte lo schiaffeggiava. E quello faceva più male delle botte sul sedere. Non una parola dolce, solo rimproveri e sculaccioni.
Alessandro aveva anche pensato di scappare. Ma senza soldi non sarebbe andato lontano. Aveva solo undici anni, nessuno lo avrebbe assunto.
“Non ho chiesto io di nascere. Che sfortuna. Fossi nato dai genitori di Fabrizio, avrei avuto una bella vita…” pensò, salendo le scale di casa.
A quattordici anni, si era abituato alle urla della madre e le ignorava. Usciva e vagabondava per strada o si chiudeva in camera con la musica a palla.
Alle superiori, cercò affetto tra le ragazze. Ma se una si rifiutava di baciarlo, la mollava subito, come avrebbe voluto fare con sua madre. Tornava a casa solo per dormire. La notte rimaneva sveglio, maledicendo la sua sorte, la madre, il padre assente e la sua vita ingiusta.
Non studiava, ma ogni tanto prendeva anche qualche sette. Provò di tutto: sigarette, vino, vodka, erba. Ma i soldi scarseggiavano e smise presto, prima di diventare dipendente.
Una volta tornò all’una e mezza di notte. La madre lo aspettava nell’ingresso e iniziò subito a urlare. Quando alzò la mano per colpirlo, Alessandro le afferrò il polso e strinse forte. Lei soffiò dal dolore.
“Non urlarmi addosso! Capito?!” ringhiò, respingendola. Entrò in camera e sbatté la porta così forte che scrostò l’intonaco dal soffitto. Ma prima aveva visto la paura nei suoi occhi.
Da allora non cercò più di picchiarlo, anche se le grida continuarono.
Ogni giorno, il rapporto tra loro peggiorava. Forse la madre voleva cambiare, ma la rabbia la trascinava. Alessandro si chiuse in sé stesso, in un guscio impenetrabile. Le urla della madre ormai rimbalzavano su un muro d’indifferenza.
Dopo il liceo, fu chiamato per il servizio militare. Quasi un sollievo. Meglio l’esercito che litigare con la madre per i soldi. Quando sarebbe tornato, avrebbe trovato lavoro e si sarebbe sistemato.
Ma in caserma le mancò. Aspettava le sue lettere, anche se erano sempre asciutte, finite con un: “Stammi bene. Mamma.”
Al ritorno, lei lo abbracciò, singhiozzò un po’. Poi tutto tornò come prima.Quando la sera Alessandro rientrò con una scatola di pasticcini e le disse “Mamma, ho pensato a te,” Luigia capì che forse, anche tra le macerie, poteva ancora crescere qualcosa di buono.