Mia figlia e mio nipote si erano trasferiti da me “temporaneamente”, ma poi ho sentito come discutevano su quale casa di riposo sarebbe stata più adatta per me.
L’arrivo di Carlotta con Riccardo fu come un uragano che sconvolse la mia vita tranquilla e ordinata. Apparvero sulla soglia con valigie, scatole e quel sorriso colpevole di mia figlia.
“Mamma, sarà solo per un po’”, cinguettò Carlotta, mentre Riccardo, mio nipote quindicenne, trascinava nel corridoio delle casse grandi come mobili. “A casa nostra c’è il rifacimento degli impianti, sai com’è… gli operai, la polvere… Un mese, massimo due.”
Io sapevo com’era. Così mi spostai in silenzio, lasciando spazio. Il mio bilocale, che prima sembrava spazioso, si restrinse all’istante.
La prima a cadere fu la sala. Si trasformò in una succursale della stanza di un adolescente: vestiti sulla poltrona, cavi che strangolavano le gambe del tavolo, il ronzio perpetuo del computer.
Le mie violette, che per anni avevano prosperato sul davanzale, furono esiliate in cucina perché “mamma, qui c’è poca luce, e Riccardo ha bisogno di spazio per il monitor”.
Poi toccò alla cucina. Carlotta si mise a riorganizzare tutto con entusiasmo.
“Ma perché tanti barattoli?”, chiese, svuotando la credenza delle mie erbe e spezie. “Questo ha cent’anni, buttiamo tutto! Ti comprerò dei contenitori nuovi, tutti uguali.”
Non chiedeva, decideva. La mia amata teiera di rame, regalo di mio marito, finì in soffitta perché “non si abbina all’arredamento”. Al suo posto, un luccicante french press.
Cercavo di non intralciare. Facevo lunghe passeggiate per non sentire la musica di Riccardo e il fruscio affaccendato di Carlotta.
Tornando, trovavo sempre qualcosa di nuovo. Mobili spostati. Una tovaglia diversa. L’album di foto antiche sparito dal comò.
“Mamma, l’ho messo nell’armadio, così non si riempie di polvere”, spiegò Carlotta, notando il mio sguardo.
Mi sentivo un’ospite. Un’ospite educata e silenziosa, tollerata nella sua stessa casa.
Non riconoscevo più il mio appartamento. Era pieno di suoni, odori, vite altrui che spingevano fuori la mia.
Una sera tornai prima dal solito. La luce in ingresso era accesa, dalla cucina venivano voci sommesse.
Stavo per entrare, ma qualcosa mi fermò. Era Carlotta, al telefono.
Mi bloccai nel corridoio buio, in ascolto.
“…sì, Marco, lo so. Ma dobbiamo scegliere il migliore. Che abbia assistenza buona e un posto decente…”
La sua voce era bassa, quasi cospiratoria. Mi appoggiai al muro, il cuore accelerò.
“No, quello è troppo lontano. Quello che mi hai mandato… le recensioni sono dubbie. Dobbiamo pensarci bene. Non sarà per un mese.”
Una pausa. Forse ascoltava la risposta di suo marito.
“Certo, è per il suo bene. Aria fresca, compagnia… qui si spegne da sola.”
Chiusi gli occhi. L’aria improvvisamente mancò.
“Va bene, guarderò altre opzioni”, concluse Carlotta. “Ne parliamo domani. Baci.”
In cucina cadde qualcosa. Scivolai in punta di piedi in camera mia e chiusi la porta.
Mi sedetti sul letto, fissando il vuoto. Niente lacrime, niente voglia di urlare. Dentro di me tutto si era ghiacciato.
Dunque, la ristrutturazione era una scusa. Tutti quei “mamma, è per il tuo bene” erano preparativi. Avevano già deciso. Per me. Restava solo da scegliere il posto.
Rimasi immobile, mentre oltre il muro la vita continuava. Riccardo rideva guardando un video. Carlotta canticchiava, lavando i piatti nel suo french press.
Loro vivevano. Io ero già archiviata.
La mattina dopo mi svegliai un’altra persona. La calma gelida di ieri era ancora lì. Mi alzai, mi vestii e andai in cucina.
Carlotta era già all’opera, preparando qualcosa con il french press.
“Buongiorno, mamma!”, mi sorrise, raggiante come sempre. “Vuoi il solito porridge?”
“No”, risposi piana. “Fammi un panino al formaggio. E rimetti a posto la mia teiera, per favore. Voglio del tè vero.”
Carlotta batté le ciglia. Il sorriso le svanì.
“Mamma, ma a che serve quella vecchia teiera? Guarda com’è pratico il—”
“Rimetti. La teiera. Al suo posto.”, dissi lentamente, fissandola. Qualcosa nel mio sguardo la fece trasalire. Senza parlare, prese una sedia, recuperò la mia teiera di rame dalla soffitta e la posò sul tavolo.
Da quel giorno iniziò la mia guerra silenziosa. Non uscivo più per ore. Mi sedevo in salotto e osservavo.
Guardavo Riccardo buttare i calzini sporchi sotto il divano, Carlotta sussurrare al telefono abbassando la voce quando entravo.
Scambiarono il mio nuovo silenzio per un capriccio da anziana. Mi conveniva.
Qualche giorno dopo, sul tavolino apparve un depliant lucido. “Residenza per anziani ‘Il Pineto’. Tranquillità e assistenza in armonia con la natura.”
Carlotta fece finta che fosse arrivato lì per caso.
Lo presi in mano mentre era vicina. Lo sfogliai. Anziani sorridenti che giocavano a scacchi. Camere accoglienti.
“Che bel posto”, dissi ad alta voce. “È un hotel?”
Carlotta si irrigidì.
“Sì, mamma, una cosa così. Me l’hanno dato al lavoro, guarda che meraviglia. Aria pulita, medici… magari ci vai un paio di settimane, ti riposi da noi?”
“Da voi?”, alzai gli occhi. “Ma voi poi tornerete a casa vostra. I lavori finiranno e partirete. O no?”
Esitò.
“Beh, certo… ma anche tu hai bisogno di cambiare.”
“E quanto costa?”, indicai il listino prezzi. “Accidenti. Caro. Ci va metà della mia pensione.”
“Mamma, ma che dici dei soldi!”, esclamò. “Io e Marco paghiamo noi! Per te non badiamo a spese.”
“Davvero?”, sorrisi. “Che fortuna. Perché volevo chiederti un prestito. Devo fare un’otturazione, e costa tanto.”
La faccia di Carlotta si allungò. La conversazione finì lì.
Quella sera ne sentii un’altra. Stavolta Carlotta litigava con suo marito.
“… sembra che mi prenda in giro!”, sibilò. “Mi chiede quando ce ne andiamo! Vuole soldi per il dentista! Io le parlo della residenza, lei mi parla delle otturazioni!”
Dietro la porta, sorrisi. La mia nuova maschera di “vecchietta irritante con vuoti di memoria” funzionava alla perfezione.
Il giorno dopo feci un altro passo. Aspettai che Carlotta e Riccardo uscissero, poi presi la mia rubrica. Trovai un numero che non chiamavo da mesi.
Squillò a lungo. Finalmente, una voce assonnata rispose.
“Paolo? Ciao, figlio mio. Sono tua madre.”
Paolo, il mio primogenito, viveva in un’altra città. Ci sentivamo poco, aveva la sua famiglia, il lavoro, la routine.
“Mamma? Tutto bene?”, la sua voce si fece subito ansiosa.
“Sì, ma ho bisogno di te”, dissi calma