**Diario di Luca Bianchi**
“Figlio, avrai una casa. Ma ti prego, prenditi cura di tua sorella malata. Non puoi abbandonarla,” sussurrò mia madre.
“Ascoltami, figlio mio…” esalò con un filo di voce.
Ogni parola le costava fatica. La malattia le rubava la vita senza pietà. Era sdraiata sul letto, consumata, quasi trasparente. A me, Luca, non sembrava più lei. Prima era una donna alta, piena di energie, con un sorriso caloroso. Ma ora…
“Figlio, ti supplico, non lasciare Giulia… Devi proteggerla. Non è come gli altri… ma è nostra… Promettimelo…” La sua mano, inaspettatamente forte, strinse la mia. Da dove le veniva tanta forza?
Feci una smorfia. Lo sguardo mi scivolò involontariamente verso mia sorella maggiore, Giulia, seduta in un angolo del nostro piccolo appartamento a Verona. Aveva più di quarant’anni, eppure continuava a giocare con una bambola, canticchiando qualcosa di incomprensibile. Sorrideva, come se l’aspettasse una festa, non l’addio a una madre morente.
Io vivevo una vita di successo: un’impresa edile, un SUV di lusso, una villa spaziosa sulle rive del Po. Ma in quella casa non c’era posto per Giulia. I miei figli si spaventavano per il suo comportamento strano, e mia moglie, Valeria, la chiamava “pazza”. Anche se Giulia era tranquilla, innocua, non dava fastidio a nessuno.
“Be’… lo sai… ho una famiglia… e Giulia… lei…” borbottai, cercando di liberare la mano dalla presa debole ma tenace di mia madre.
“Figlio, la casa di tuo padre sarà tua… Ma per Giulia ho lasciato un trilocale. Tutto è già sistemato.”
“Da dove vengono i soldi?!” Io e Valeria ci scambiammo un’occhiata, sbalorditi. I nostri volti si illuminarono alla notizia.
“Ho assistito un’anziana maestra… Le portavo da mangiare, le medicine… Mi dispiaceva per lei, era una donna buona. Non mi aspettavo che mi lasciasse il suo appartamento. L’ho intestato a Giulia, così avrà un suo spazio. Ma tu… ti prego, veglia su di lei… Un giorno quell’appartamento andrà ai tuoi figli o nipoti… Chi sa quanto vivrà…”
Ci congedammo da lei. Morì quella stessa notte.
Giulia, pareva, non capisse di essere rimasta orfana. La portai subito a casa mia e iniziai i lavori di ristrutturazione nel trilocale.
“A cosa serve a Giulia un appartamento così grande? Per ora resti con noi. E laggiù troveremo degli inquilini,” dissi entusiasta a Valeria.
Lei all’inizio non obiettò. Giulia non dava problemi: passava le giornate con le bambole o a riordinare le sue cose nell’armadio, sempre sorridente. Ma la sua stranezza spaventava. “Oggi è tranquilla, e domani?” sussurrava Valeria.
“Dammi un po’ di tempo,” la pregavo. Ma dopo sei mesi dalla morte di mamma, con l’aiuto di un notaio amico, intestai a me sia la casa paterna che il trilocale di Giulia. La convinsi a firmare delle carte senza spiegarle cosa fossero.
Da quel momento, la vita di mia sorella diventò un inferno.
Quando ero al lavoro, Valeria la tormentava. La insultava, la chiudeva in camera tutto il giorno, non la faceva mai uscire, neanche d’estate. A volte, invece del cibo, le metteva una ciotola di croccantini per gatti, gridando finché non la faceva piangere. Una volta Valeria le diede uno schiaffo in faccia. Giulia si spaventò tanto che… si bagnò addosso.
“Non sei solo pazza, ma anche incapace di fare i tuoi bisogni?! Fuori di casa mia, non ti voglio più vedere!” urlò Valeria.
Raccolse le cose di Giulia in un sacco della spazzatura e le scaraventò fuori dal cancello.
“Dov’è Giulia? Non l’ho vista oggi,” chiesi quella sera, mettendomi a letto.
“Se n’è andata!” tagliò corto Valeria, irritata. “Figurati, tua sorella si è fatta la pipì addosso in mezzo al salotto, poi si è rintanata in camera. Ho aperto la porta a fatica, l’ho sgridata, e lei ha preso la borsa ed è scappata. Mica corro dietro a una pazza! La principessina si è offesa…” sbuffò, sprezzante.
Rimasi immobile. Stetti zitto, riflettendo, poi dissi:
“Be’, se se n’è andata…” e accesi la TV. “A proposito, ho trovato degli inquilini per quel trilocale.”
La notte fu pesante. Non chiusi occhio fino all’alba, pensando a Giulia. Dov’era? Stava bene? Era come una bambina di tre anni, incapace di badare a sé stessa. Solo all’alba mi addormentai. Sognai mia madre.
“Te l’avevo chiesto, figlio…” disse, distesa nella bara di legno, e mi scosse un dito.
Quel sogno mi tormentò ogni settimana, succhiandomi le energie. Non ressi più. Dopo due mesi dalla scomparsa di Giulia, chiamai Anna, la mia madrina e amica di mamma, sperando sapesse qualcosa.
“Allora, Luca, ti rode la coscienza?” disse gelida. “Per fortuna, quel giorno, sono passata da tua madre. Ho trovato Giulia lì. Era terrorizzata, infelice. Ancora non capisco come ci sia arrivata! Ora vive con me. Me ne prenderò cura, non mi interessa il suo appartamento. Ma tu viviti il tuo senso di colpa. Prega che la tua mente ti resti fino alla fine!”
“Basta, zia…” borbottai, riattaccando. Tirai un sospiro di sollievo: Giulia era al sicuro. Potevo andare avanti.
Giulia morì due mesi dopo. La stessa malattia di mamma si portò via anche lei. Non andai al funerale – avevo “impegni importanti” in azienda.
Passarono dieci anni. Ora io sono inchiodato a letto. Il corpo mi duole, ma l’anima ancora di più. Valeria non viene più – vive con un altro uomo nella stanza accanto. I figli adulti fanno raramente visita, storcono il naso: “Puzzi di nuovo…” Anch’io, come i miei cari, mi spegnevo lentamente.
Un giorno Valeria entrò con delle carte:
“Firma, dobbiamo sistemare le cose del lavoro.”
Firmai. Solo dopo capii: era un atto di donazione per la casa. Poi, per l’azienda. Troppo tardi. Tornarono in mente mamma e Giulia. Le lacrime mi rigarono il viso.
“Perdonatemi… perdonatemi…” sussurrai nel vuoto.
**Lezione:** Il denaro compra case, ma non redime l’anima. Chi tradisce il sangue, un giorno lo ritrova nella sua solitudine.