— Ascoltami, figlio… — sussurrò la madre con un filo di voce.
Ogni parola le costava fatica. La malattia le stava portando via la vita, lentamente. Era distesa sul letto, consumata, quasi trasparente. A Giovanni sembrava impossibile che quella fosse sua madre. Una volta era alta, forte, con un sorriso dolce. Ma ora…
— Figlio, ti prego, non abbandonare Silvia… Devi proteggerla. Non è come gli altri… ma è nostra. Promettimelo… — la madre strinse la mano di Giovanni con una forza inaspettata. Da dove veniva tutta quell’energia, si chiese lui.
Giovanni fece una smorfia. Lo sguardo gli scivolò involontariamente verso la sorella maggiore, Silvia, seduta in un angolo del loro piccolo appartamento a Napoli. Aveva già passato i quaranta, eppure continuava a giocare con una bambola, canticchiando qualcosa di incomprensibile. Sorrideva, come se stesse aspettando una festa, non l’addio a una madre morente.
Giovanni aveva una vita di successo: la sua azienda edile, un SUV di lusso, una villa spaziosa sulla costa amalfitana. Ma in quella casa non c’era posto per Silvia. I suoi figli si spaventavano per il suo comportamento strano, e sua moglie, Beatrice, la chiamava “pazza”. Anche se Silvia era tranquilla, innocua, non dava mai fastidio a nessuno.
— Ecco… sai… io ho una famiglia… e Silvia… lei… — borbottò Giovanni, cercando di liberare la mano dalla presa debole ma tenace della madre.
— Figlio, la casa di tuo padre sarà tua… Ma per Silvia ho lasciato un trilocale. È tutto registrato.
— Da dove sono usciti i soldi?! — Giovanni e Beatrice si scambiarono un’occhiata, sbalorditi. I loro volti persino si illuminarono alla notizia.
— Ho assistito un’anziana maestra… Le portavo da mangiare, le medicine… Mi dispiaceva per lei, era gentile. Non mi aspettavo che mi avrebbe lasciato il suo appartamento. L’ho intestato a Silvia, così avrà un suo angolo. Ma tu… tu devi badare a lei, ti supplico… Poi quel trilocale andrà ai tuoi figli o nipoti… Chissà quanto vivrà…
Si salutarono dalla madre. Morì quella stessa notte.
Silvia, a quanto pareva, non capiva di essere rimasta orfana. Giovanni la portò subito a casa sua e iniziò i lavori di ristrutturazione nel trilocale.
— A che serve a Silvia un appartamento così grande? Per ora stia con noi. E poi troveremo degli inquilini — disse entusiasta alla moglie.
Beatrice all’inizio non obiettò. Silvia non dava problemi: passava le giornate a giocare con le bambole o a riordinare le sue cose nell’armadio, sempre sorridente. Ma la sua stranezza spaventava. “Oggi è tranquilla, ma domani?” — sussurrò Beatrice al marito.
“Resisti ancora un po’” — chiese Giovanni. Ma sei mesi dopo la morte della madre, con l’aiuto di un notaio amico, si fece intestare sia la casa paterna che il trilocale della sorella. Silvia firmò dei documenti senza capire cosa fossero.
Da quel momento, la vita della sorella malata diventò un inferno.
Quando Giovanni era al lavoro, Beatrice tormentava Silvia. La insultava, la chiudeva in camera per ore, non la lasciava uscire neanche d’estate. A volte, invece del cibo, le metteva una ciotola con croccantini per gatti, urlava fino a far piangere la poveretta. Una volta, Beatrice le diede uno schiaffo. Silvia si spaventò così tanto che… si bagnò addosso.
— Non solo sei pazza, ma pure non riesci a controllarti?! Fuori di casa mia, non ti voglio più vedere! — urlò Beatrice.
Mise le cose di Silvia in un sacco della spazzatura e le buttò fuori dal cancello.
— Dov’è Silvia? Non l’ho vista oggi — chiese Giovanni quella sera, tornato a casa e sdraiandosi a letto.
— Se n’è andata! — tagliò Beatrice infastidita. — Figurati, tua sorella si è pisciata addosso in mezzo al salotto, poi si è chiusa in camera. Ho faticato ad aprire la porta, l’ho sgridata, e lei ha preso la borsa ed è scappata. Mica posso correrle dietro! La principessa si è offesa… — sbuffò sprezzante.
Giovanni si bloccò. Rimase in silenzio, riflettendo, poi disse:
— Beh, se è andata… — e accese la TV. — A proposito, ho trovato degli inquilini per quel trilocale.
La notte fu pesante. Giovanni non chiuse occhio fino all’alba, pensando a Silvia. Dov’era? Stava bene? Era come una bambina di tre anni, totalmente incapace di badare a sé stessa. Solo all’alba si addormentò. Sognò sua madre.
“Te l’avevo chiesto, figlio…” — gli disse, distesa in una bara di legno, agitando un dito.
Quel sogno lo tormentò ogni settimana, prosciugandogli le energie. Giovanni non resse. Dopo due mesi dalla scomparsa di Silvia, chiamò l’amica di sua madre, la sua madrina, Anna, sperando sapesse dove fosse.
— Che c’è, Gianni, ti rode la coscienza? — disse gelida Anna. — Meno male che sono passata da tua madre quel giorno. Ho trovato Silvia lì. Era terrorizzata, infelice. Ancora non capisco come ci sia arrivata, poverina! Ora vive da me. Me ne occuperò io, non mi serve il suo appartamento. Tu viviti il senso di colpa. Prega che la tua ragione ti accompagni fino alla fine!
— Zia, basta… — borbottò Giovanni e riattaccò. Sospirò sollevato: la sorella era stata trovata, stava bene. Ora poteva andare avanti.
Silvia morì due mesi dopo. La stessa malattia che aveva ucciso la madre. Giovanni non andò al funerale – aveva “impegni importanti” in azienda.
Passarono dieci anni. Ora Giovanni era costretto a letto. Il corpo gli doleva, ma l’anima ancora di più. Beatrice non lo visitava più — viveva con un altro uomo nella stanza accanto. I figli adulti lo vedevano raramente, arricciando il naso: “Puzzi di nuovo…” Giovanni, come i suoi cari, si spegneva lentamente.
Un giorno, Beatrice entrò con dei documenti:
— Firma, dobbiamo sistemare le cose dell’azienda.
Firmò. Solo dopo capì: era un atto di donazione per la villa. Poi, per l’azienda. Troppo tardi. Gli tornarono in mente sua madre e Silvia. Le lacrime gli rigarono il viso.
“Perdonatemi… perdonatemi…” — sussurrò nel vuoto.