Figlio mio, ti prego, abbi cura di tua sorella malata. Non puoi abbandonarla!” – sussurrò la madre.

“Figlio mio, ti prego, abbi cura di tua sorella malata. Non puoi abbandonarla!” sussurrò la madre.

“Figlio, avrai una casa. Ma ti supplico, prenditi cura di tua sorella malata. Non lasciarla sola!” ripeté, le parole che le strappavano il cuore.

“Ascoltami, figlio…” sospirò appena udibile.

Ogni parola era una sofferenza. La malattia la consumava senza pietà. Era sdraiata sul letto, fragile, quasi trasparente. Luciano non la riconosceva più. Una volta era stata forte, sorridente, piena di vita. Ora…

“Luciano, ti prego, non lasciare Rosetta… È innocente. È diversa, ma è nostra. Promettimelo…” La madre gli strinse la mano con una forza inaspettata. Da dove prendeva tanta energia, si chiese lui.

Luciano fece una smorfia. Lo sguardo gli scivolò verso la sorella maggiore, Rosetta, che giocava in un angolo del loro piccolo appartamento a Napoli. Aveva superato i quaranta, ma si divertiva ancora con le bambole, canticchiando senza senso. Sorrideva, come se non fosse davanti alla morte della madre, ma a una festa.

Luciano aveva una vita assicurata: un’azienda edile, un SUV di lusso, una grande villa vicino al Tevere. Ma lì non c’era posto per Rosetta. I suoi figli ne avevano paura, e sua moglie, Elisabetta, la chiamava “pazza”. Anche se Rosetta era tranquilla, giocherellona, innocente.

“Beh… sai… ho una famiglia… e Rosetta… è…” balbettò, cercando di liberare la mano dalla stretta della madre.

“Figlio, la casa di tuo padre è tua… Per Rosetta ho lasciato un appartamento di tre stanze. È tutto in regola.”

“Da dove vengono i soldi?!” Luciano ed Elisabetta si scambiarono un’occhiata stupita. I loro volti si illuminarono di avidità.

“Mi sono presa cura della maestra anziana… Le portavo da mangiare, le medicine… Era buona. Non credevo che mi avrebbe lasciato l’appartamento. L’ho intestato a Rosetta, perché avesse un rifugio. Ma tu… tu veglia su di lei, ti prego… Un giorno sarà dei tuoi figli. Chissà quanto vivrà…”

Quella notte, la madre morì.

Rosetta sembrava non capire di essere rimasta orfana. Luciano la portò subito a casa sua e iniziò a ristrutturare l’appartamento.

“Perché Rosetta ha bisogno di tanto spazio? Può stare con noi. Troveremo degli inquilini.”

Elisabetta non protestò subito. Rosetta non dava fastidio: giocava tutto il giorno, ridendo. Ma le sue stranezze terrorizzavano Elisabetta. “Oggi è tranquilla, ma domani?”

“Aspetta ancora un po”, la pregò Luciano. Ma, dopo sei mesi, con l’aiuto di un notaio amico, trasferì la casa paterna e l’appartamento della sorella a suo nome. Fece firmare Rosetta senza spiegazioni.

Poi cominciò l’inferno.

Mentre Luciano era al lavoro, Elisabetta tormentava Rosetta: la insultava, la chiudeva in camera, a volte le dava da mangiare cibo per gatti. La trovava in lacrime, spaventata. Un giorno, Elisabetta la colpì. Rosetta, terrorizzata, si bagnò addosso.

“Non solo sei una stupida, ma ti fai anche la pipì addosso?! Fuori di casa mia!”

Le gettò le sue cose in una borsa e la cacciò.

“Dov’è Rosetta?” chiese Luciano quella sera, sdraiandosi nel letto.

“Se n’è andata!” urlò Elisabetta. “Si è bagnata, poi si è chiusa in camera. Quando ho aperto, è scappata con la borsa. Non corro certo dietro a una pazza!”

Luciano tacque. Poi disse: “Bene, se è andata via…” e accese la televisione. “A proposito, ho trovato degli inquilini.”

La notte fu lunga. Pensò a Rosetta. Dov’era finita? Era come una bambina, indifesa. Si addormentò solo all’alba, sognando la madre:

“Ti avevo chiesto, figlio…” disse dal feretro, minacciandolo con un dito.

Il sogno lo perseguitò per settimane. Non resistette più. Dopo due mesi, chiamò la sua madrina, Anna:

“Che c’è, Luciano, ti rode la coscienza?” rispose lei fredda. “Per fortuna sono passata da tua madre. Ho trovato Rosetta terrorizzata, l’ho portata da me. La tengo io. Non mi serve il suo appartamento. Tu vivi con la vergogna!”

“Madrina, per favore…” borbottò lui, chiudendo il telefono. Si sentì sollevato: Rosetta era al sicuro.

Ma morì due mesi dopo, della stessa malattia della madre. Luciano non andò al funerale aveva “un affare urgente”.

Passarono dieci anni. Ora Luciano era a letto, malato, tormentato dal dolore e dai rimorsi. Elisabetta viveva con un altro uomo. I figli venivano raramente, brontolando: “Puzzi di malattia…”

Un giorno, Elisabetta entrò con dei documenti:

“Firma, dobbiamo sistemare l’azienda.”

Lui firmò. Più tardi capì: era la donazione della casa. Poi dell’azienda. Troppo tardi. Si ricordò della madre e di Rosetta. Lacrime gli rotolarono sulle guance.

“Perdonatemi…” sussurrò nel vuoto che lo inghiottiva.

**La vita insegna che l’egoismo può portare solo solitudine, mentre l’amore, anche se difficile, è l’unica eredità che vale la pena lasciare.**

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