**Diario di un uomo – Una lezione sulla maschera che indossiamo**
Che pensino pure che la mia vita sia stata un colpo di fortuna.
Ludovica odiava il suo nome, ma ancora di più il cognome – Gattini. I ragazzini, si sa, sono spietati coi coetanei. Fin dalle elementari, Ludovica era stata soprannominata “Gatta”.
Si guardava allo specchio e sognava capelli lunghi e biondi come quelli di Beatrice Conti, le gambe slanciate di Sofia Marini o, almeno, genitori cool come quelli di Carlotta Rossi, la secchiona bruttina che veniva accompagnata a scuola dall’autista su una Mercedes. “Perché mamma ha sposato papà con un cognome così ridicolo? Doveva pensarci, a quanto avrei sofferto. Io sposerò solo un uomo con un cognome normale, meglio ancora se straniero,” sospirava.
La irritavano i suoi ricci scuri, ribelli, che sfuggivano a forcine e cappelli. Gli occhi grigio chiaro sulla pelle olivastra erano affascinanti e misteriosi, ma nemmeno quelli le piacevano.
La madre faceva la contabile in un ospedale, il padre guidava l’autobus. I soldi in casa non bastavano mai. Papà metteva da parte per la macchina e controllava che nemmeno un centesimo fosse sprecato. “Non serve vestirti come una principessa, tanto sei solo una ragazzina,” brontolava, notando un abito nuovo addosso a Ludovica. Spesso portava i vestiti smessi della cugina, e se riceveva qualcosa di nuovo, era perché non andava bene a lei. Che strazio. Se solo avesse avuto genitori “normali”, nessuno l’avrebbe chiamata Gatta.
Poco prima degli esami di maturità, arrivò in visita una delle sorelle del padre, zia Lucia. Lavorava come domestica per una famiglia ricca a Firenze.
“Vuoi che ti dica come venire lì?” le sussurrò una sera prima di dormire. Condividevano la stanza di Ludovica.
“Certo!” esclamò lei, eccitata.
“Piano! Tuo padre non approverebbe. Hai già diciotto anni?”
“Sì, compiuti a gennaio.” Il cuore di Ludovica accelerò.
“Bene. Non serve il permesso dei tuoi genitori. Fa’ come ti dico e tutto andrà bene. Quell’avaro di tuo padre non cambierà mai.”
Zia Lucia sembrava una vera signora fiorentina, non una semplice domestica. “I soldi contano, mica come li guadagni,” diceva sempre.
Ludovica si entusiasmò all’idea. Zia Lucia le diede dei soldi, dicendole di restituirli quando avesse lavorato.
Fece tutto come consigliato: si iscrisse a un corso da parrucchiera per quietare i genitori, ma quando arrivò la chiamata dall’Italia, mollò tutto, preparò la valigia, lasciò un biglietto e partì.
A Firenze, zia Lucia la portò in una bellissima villa in periferia, dove Ludovica avrebbe badato a un’anziana di ottant’anni.
“Non deludermi. Non rubare. Ho fatto da garante per te,” ammonì, mentre Ludovica tremava per la sua audacia.
La villa la lasciò senza fiato. La sistemarono in una stanzetta accanto alla camera dell’anziana. Ludovica era contenta di non dover pagare un affitto. Per qualche euro in più, puliva la casa due volte a settimana. Non usciva quasi mai. L’Italia, per lei, erano quelle mura e il prato perfetto fuori dalla finestra. Pazienza, un anno sarebbe volato. Guadagnava, imparava la lingua, poi avrebbe visto.
Come il padre, iniziò a risparmiare. Non aveva tempo né modo di spendere. Faceva selfie con i mobili di lusso del salone quando i padroni erano fuori e li postava sui social. “Che credano pure che la vita mi abbia sorriso.”
Le ex compagne le mettevano like, invidiose. Nessuno la chiamava più Gatta, tutti usavano il suo nome, chiedendole come avesse fatto. Lei rispondeva evasiva.
Un giorno, uno dei suoi post fu commentato da Marco, un ex compagno. Iniziarono a scriversi. Lui parlava poco di sé, solo che lavorava in un’officina, guadagnava bene e si era comprato un’Audi. Postò una foto accanto a una macchina rossa.
Sulla loro relazione, però, scriveva sempre più spesso. Le diceva che le mancava, chiedeva quando sarebbe tornata. Ludovica rispondeva che non aveva intenzione: l’Italia era magnifica. Sapeva che la sua “storia italiana” influenzava i suoi sentimenti, ma Marco insisteva: le era piaciuta sin dalle medie. A volte lo sentiva sinceramente affezionato. Ci credeva.
Una sera, i padroni uscirono per una cena. Di solito rientravano all’alba. L’anziana dormiva. Ludovica entrò nel guardaroba e provò i vestiti della padrona. Uno rosso, su sottili bretelle, le stava a pennello. La signora era magra e piatta, mentre Ludovica aveva curve perfette. Si guardò allo specchio e per la prima volta si piacque.
Versò del vino in un bicchiere e si filmò sul divano del salone, con i quadri alle spalle. Postò tutto con caption tipo: “Tornata da una serata importante… Troppo stanca per cambiarmi. Un bicchiere di vino per rilassarmi…”
Bevve un bicchiere. Poi un altro. Si addormentò sul divano, ancora vestita.
La svegliarono le urla della padrona. Parlava un italiano così veloce che Ludovica non capì nulla. Solo quando la donna indicò la porta con un dito ossuto, capì: la cacciavano via. La padrona andò persino a prendere le sue cose e gliele gettò addosso.
Ludovica infilò tutto in valigia tra le urla: “Vai via!” Questo lo capì. Sull’uscio, vide il suo riflesso nello specchio e sorrise: almeno non si era tolta quel vestito. Ma la padrona se ne accorse e la richiamò.
Lentamente, Ludovica si sfilò l’abito, sotto il quale portava solo le mutandine. Lo sguardo lubrico del marito, grasso e calvo, le scrutava il seno. Poi indossò i jeans e la felpa, mentre lui parlava concitato alla moglie, probabilmente pregandola di perdonare la ragazza. La signora iniziò a urlare contro di lui.
Ludovica scosse i ricci, sorrise sarcastica e se ne andò. Camminando, ripensò a come il padrone l’avesse fissata. “Se mi avesse guardata prima, forse sarei diventata la signora di casa…”
Non sapendo la lingua, non poteva cercare altro lavoro. Chiamò zia Lucia, ma era fuori Firenze. Le chiese di aspettare una settimana. Ma dove? Decise di tornare a casa, in Italia del Nord. Aveva risparmiato, forse avrebbe aiutato il padre, se non avesse ancora comprato la macchina.
Scese dal treno. La stazione era sporca, le case trasandate. Rimpiangeva già di essere tornata. Solo le conversazioni in italiano la sollevavano: finalmente capiva tutto senza sforzo.
Davanti alla stazione, vide Marco, che faceva il tassista. Per un attimo, si vergognò, poi sorrise.
“Perché non mi hai avvisato? Sarei venuto a prenderti all’aeroporto.”
“Dov’è l’Audi? Mi hai mentito?”
“Ecco… sapevo che non mi avresti dato retta se avessi detto che sono un semplice meccanico. L’Audi è un sogno. Ma faccio il tassista nel tempo libero.”
“Ah, va bene.” Lo osservò: era diventato più bello. “Sei cambiato.”
“Tu sei più splendida che mai.”Ludovica sorrise, decise di non raccontare altro, e mentre camminava verso l’aeroporto per tornare a Firenze, capì che forse la felicità non era nell’apparire, ma nell’essere sincera con se stessa e con chi la amava davvero.