L’autunno stava morendo. Si congedava dalla città con lentezza, lasciando alle spalle tappeti di foglie rosso porpora e gialle, illuminate dai freddi raggi del sole. L’aria era trasparente, vibrante – già si sentiva l’odore dell’inverno. I rami degli alberi si spogliavano, ma qua e là resistevano gli ultimi eroi: foglie ostinate, che sembravano rifiutarsi di arrendersi fino all’ultimo.
“Stanno sfiorendo le settembrine e le margherite autunnali,” pensò Chiara, dirigendosi verso il suo negozio di fiori. “Le ultime guardiane della bellezza prima dell’inverno.”
Le settembrine erano come aveva sempre chiamato gli astri, e le margherite autunnali le crisantemi. I fiori erano il suo amore, la sua essenza, il suo respiro. Mentre le altre bambine giocavano con le bambole, lei raccoglieva mazzi, disponeva petali, intrecciava ghirlande. Il suo sogno si era avverato: aveva aperto il suo negozio e ora ogni giorno iniziava tra il profumo di rose, i colori delle gerbere e la freschezza dell’eucalipto.
“I fiori non sono solo un lavoro. Sono vita. Sono io stessa,” diceva agli amici.
Chiara viveva a Ferrara, in un quartiere tranquillo vicino a un vecchio parco. Aveva trentanove anni e condivideva la casa con sua figlia Giulia, una liceale intelligente, sognatrice e determinata a entrare all’università entro l’estate.
Con suo marito era stata sposata appena tre anni. Non l’aveva lasciata per un’altra donna, ma per sua madre. Se n’era andato in silenzio, come se quei tre anni non fossero mai esistiti. Lui non sopportava i fiori. Li chiamava “scope”, brontolando che “occupavano tutto il davanzale”. Ma Chiara non poteva farne a meno: aveva bisogno di vedere la vita, sentire i profumi, sfiorare i petali con le dita.
“Finché Giulia non cresce, niente uomini. Se mai ne incontrerò uno, dovrà amare i fiori, o almeno non detestarli,” aveva deciso con fermezza.
Il suo amore per i fiori veniva dai tempi della nonna. Da bambina trascorreva le estati in un paesino vicino a Ravenna, dove i campi si estendevano all’orizzonte e i prati fioriti sembravano tappeti ricamati dal cielo. Ogni giorno raccoglieva mazzi e la nonna si stupiva:
“Chiarina, chi ti ha insegnato a comporre così bene?”
“Nessuno, nonna. Lo sento. Li amo e basta. Quando sarò grande aprirò un negozio di fiori, verrai a trovarmi.”
“Ci credo, tesoro. Hai preso tutto dal nonno. Lui conosceva le erbe, i fiori… lassù in soffitta c’è ancora il suo libro,” sospirava la nonna.
Il libro c’era davvero: vecchio, consumato, ma magico. Chiara lo imparò a memoria, e già da adolescente riconosceva ogni pianta. A scuola in biologia prendeva solo dieci, e alla maturità sapeva già che la sua vita sarebbe stata legata ai fiori.
La mamma non condivideva la sua passione. Preferiva pomodori e zucchine nell’orto, ma Chiara piantava petunie e tageti in ogni spazio che riusciva a strappare.
“Non mettere fiori tra le verdure!” brontolava sua madre. “Qui devono crescere le carote!”
Il papà invece rideva e le strizzava l’occhio: “Ecco la nostra fioraia in erba.”
Dopo il liceo, Chiara non si iscrisse all’università – e non se ne pentì. Frequentò un corso di floricoltura e iniziò a lavorare in una bancarella di fiori. Gli anni passarono. Arrivò un marito – e poi se ne andò. Giulia crebbe, e finalmente Chiara riuscì ad aprire una piccola bottega. Poi, un vero negozio. I genitori la aiutarono, e il giorno dell’inaugurazione pianse di felicità.
“Mamma, ce l’ho fatta. Questo è mio.”
Da allora, la sua vita si riempì di petali, verde e clienti riconoscenti.
Un giorno una donna elegante, di nome Isabella, entrò e dopo aver osservato la vetrina le disse:
“Potrebbe decorare il ristorante per il matrimonio di mia figlia? L’ho notata da tempo: i suoi mazzi sono come favole.”
Chiara accettò. Non per i soldi – ma per passione. Creò tutto con amore: composizioni in toni pastello, ghirlande viventi, tocchi delicati. Quando Isabella vide la sala rimase senza parole:
“Che talento… Grazie. Non sa quanto mi abbia commosso.”
La voce di Chiara si diffuse in città. Arrivarono ordinazioni per banchetti, anniversari, mostre. Il negozio divenne il cuore del quartiere.
Poi, un giorno, un uomo entrò – sui quarantacinque anni, atletico, piacevole ed educato.
“Buongiorno. Lei è Chiara? Ho bisogno di un mazzo. Speciale. Che faccia sorridere una donna subito.”
Lo osservò con attenzione. Lineamenti marcati, sguardo sicuro. E qualcosa in quella voce la colpì.
“Per chi è il mazzo? Per la sua donna, o sua madre, sua figlia?”
“Per mia madre. Compie settantacinque anni. Voglio che si senta accolta.”
Chiara creò un bouquet meraviglioso: rose, gerbere e rametti di eucalipto – vivo, palpitante.
“Grazie,” disse lui. “Marco. Molto piacere. Spero di rivederla.”
Tre giorni dopo tornò davvero.
“Chiarina, non ti aspettavi? Ho tre motivi. A mia madre è piaciuto tantissimo il mazzo – perfetto. Secondo: mi sei piaciuta. Terzo: ti invito a prendere un caffè. Se vuoi.”
Lei sorrise imbarazzata.
“Volentieri. Perché no?”
Al bar parlarono per tre ore. Marco era un professore di botanica. Discutevano di tutto: piante, libri, film. E scoprirono che ciò che li univa era più di ciò che li divideva.
Da allora si frequentarono. Insieme andarono sulle Dolomiti a Capodanno, lui le insegnò a sciare, lei a distinguere le varietà di tulipani. Quell’estate Giulia entrò all’università. E Chiara e Marco si sposarono.
Ora erano insieme – nell’amore e nel lavoro. Lui l’aiutava nel negozio prima delle feste, scaricava scatole, scherzava con i clienti. Un giorno, mentre sistemava le casse, assistette a una scena:
Un ragazzo entrò di corsa, sconvolto, al limite del panico.
“Aiutatemi! Ho litigato con la mia ragazza. Fatemi un mazzo che la faccia perdonarmi!”
Chiara rifletté. E creò una composizione in toni rosa e crema, con gipsofila e mimosa – delicata come il perdono stesso.
Il ragazzo la ringraziò e se ne andò.
Passò un anno. Un giorno, per strada, una coppia con un passeggino la raggiunse.
“Mi ricorda?” chiese il ragazzo. “Sono tornato per dirle… ecco il risultato!”
Nel passeggino dormiva un bebè.
“Dio…” riuscì solo a sussurrare Chiara. “Sono così felice per voi.”
Tornò a casa elettrizzata. Marco l’aspettava con la cena pronta.
“Marco, non immagini che giornata! Ascolta…”
Lui ascoltò. E poi disse:
“Perché i tuoi fiori non portano solo bellezza. Portano felicità.”
E Chiara, guardando il suo negozio, il suo uomoE mentre i petali continuavano a danzare nel vento, Chiara chiuse gli occhi e sorrise, sapendo che la felicità, come un fiore ben curato, sarebbe sempre tornata a sbocciare.