Frigo vuoto, lacrime piene: l’odissea con mia figlia e i suoi “amici

Allora, ho una figlia, Giulia. Vivace, dolce, troppo aperta con tutti. Davvero troppo. È amica di chiunque: compagni di classe, ragazzi del quartiere, amici del doposcuola, persino di quelli che io, sinceramente, non ho mai visto prima. E ultimamente tutta questa combriccola si è installata a casa nostra.

“Dai, fuori fa freddo e vogliamo stare insieme!” Giulia, da brava padrona di casa, li invita dentro, mette su la musica, offre biscotti, prepara il tè, organizza chiacchierate rumorose. All’inizio chiudevo un occhio: “Vabè, sono ragazzi, si divertono e poi se ne vanno.” Ero persino contenta che avesse tanti amici. Ma a un certo punto è sfuggito tutto di mano.

L’altro giorno sono tornata dal lavoro stanca, affamata, con un solo pensiero: cena e poi tuffarmi sul divano. Ma in cucina mi aspettava una sorpresa. Due ragazzini sconosciuti, sui dieci anni, seduti a tavola che finivano di mangiare il ragù. Direttamente dalla pentola! La mia pentola! Quella che avevo preparato per due giorni per non dover cucinare ogni sera.

Mi sono bloccata sulla porta. Loro, senza imbarazzo, hanno finito il resto, messo i piatti nel lavandino e sono usciti salutando allegramente. Io sono rimasta lì, senza parole. Pranzo, cena… tutto sparito. Per la mia famiglia, per mio marito e mia figlia, non era rimasto nulla.

Sono andata da Giulia. Le ho spiegato con calma: “Offrire il tè o i biscotti agli amici? Perfetto. Ma il ragù, la pasta, la carne… quello è per noi, per la famiglia. Ci metto tempo e soldi, lavoro per questo. Non lo preparo perché degli estranei svuotino la pentola mentre non ci siamo.”

Lei ha sbattuto la porta e ha chiuso a chiave. Dopo un po’ ho sentito la sua voce dall’altra parte:

“Sei tirchia! Mia madre e non vuoi nemmeno che i miei amici mangino?”

Offesa. Risentita. Non è uscita neanche per cena, anche se io, stringendo i denti, ho rifatto la pasta e cotto le polpette… almeno qualcuno avrebbe mangiato decentemente.

La mattina dopo l’ho presa da parte e le ho detto chiaro: “Il cibo è per due giorni. Io torno tardi la sera, non cucinerò di notte. Se vuoi essere grande, impara a capire certi limiti.” Lei ha girato la testa ed è andata a scuola senza dire una parola.

Quella sera, tornata dopo le undici, mio marito stava friggendo le patate. Perché non era rimasto più niente. Giulia aveva portato di nuovo i suoi amici. Mentre noi lavoravamo, loro avevano svuotato il frigo: niente pasta, niente polpette, nemmeno un panino. Solo piatti sporchi e carta strappata.

Giulia si è chiusa di nuovo in camera. Non ci ha risposto. Io e mio marito ci siamo guardati… sapevamo che la situazione era fuori controllo. E non era solo questione di cibo. Era che nostra figlia non ascolta. Non vuole ascoltare. Ci vede come dei nemici perché chiediamo solo rispetto per la casa, il nostro lavoro e i nostri confini.

Non sono tirchia. Non siamo poveri, ma tutto quello che abbiamo viene dal nostro sudore. E non posso permettermi di sfamare i figli degli altri. Non moralmente, e non voglio.

Mi sento stanca. Mi sento disperata. Mi fa male che mia figlia veda la mia cura come avarizia. Mia madre dice: “Prendi la cintura.” Ma non credo nella forza delle botte. Credo nelle parole, nelle spiegazioni. E allora cosa faccio se lei non vuole sentire?

Forse ho sbagliato qualcosa nell’educarla? Forse sono stata troppo buona? O è solo l’età, e passerà? Non lo so. Sono confusa.

Ditemi, qualcuno ci è passato? Come si fa a far capire a un adolescente che sua madre non è un ristorante gratis? Come si fa a riportare il rispetto per la famiglia e il valore del lavoro?

Io vorrei solo ritrovare un po’ di gratitudine negli occhi di mia figlia.
Invece di rimproverarmi perché “la pasta al pomodoro non è un buffet pubblico”.

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