Genitori e il loro ‘sostegno’

“Genitori e il loro ‘sostegno'”

Fino a quando non compirai diciotto anni, ti darò dei soldi – pochi, giusto per mangiare e vestirti. Poi sarai da sola, Ginevra. Non so come andrà la tua vita, ma non voglio che tu sia come noi con tuo padre”, mi ha detto mia madre, Luciana De Luca, con un’espressione che sembrava un favore immenso. Sono rimasta a bocca aperta, senza credere che fossero le parole di mia madre. Cosa, dopo il mio compleanno divento un’estranea per loro? E cosa vuol dire “come loro”? Già non voglio assomigliare ai miei genitori, che sembrano aver dimenticato cosa significhi essere una famiglia. Ma quelle parole mi hanno colpito così profondamente che ancora non riesco a riprendermi.

Ho sedici anni e sapevo già che il nostro rapporto non era perfetto. Mia madre e mio padre, Alessandro, vivono la loro vita, io la mia. Non sono cattive persone, ma come dire… non sono i più responsabili. Mio padre oggi lavora, domani sta a casa, chiuso in garage con gli amici. Mia madre è sempre occupata – tra il mercato e i pettegolezzi con le vicine. Sono cresciuta arrangiandomi da sola: cucino, pulisco, studio per prendere bei voti ed entrare all’università. Ma non avrei mai pensato che mi avrebbero fatto capire così chiaramente: dopo i diciotto anni, per loro non esisto più.

È iniziato tutto la scorsa settimana, quando ho chiesto a mia madre dei soldi per delle scarpe da ginnastica nuove. Le mie sono consumate, e a scuola ci sono le gare di atletica, non voglio fare brutta figura. Mi ha guardata come se fossi una mendicante e ha detto: “Ginevra, sei già grande, potresti guadagnarteli da sola. Ti do già abbastanza per mangiare.” Me li dà? Sono duecento euro alla settimana che bastano appena per il bus e un panino in mensa! Ho provato a spiegare che le scarpe non sono un lusso, ma mi ha interrotta: “Fino a diciotto anni ti aiuto, poi arrangiati. Io e tuo padre non siamo una banca.” Sono rimasta senza fiato dall’amarezza. Non una banca? Allora cosa siete? Genitori dovrebbero sostenere, non mettere un timer al loro affetto.

Sono tornata in camera e ho pianto per metà della notte. Non per le scarpe, ma per il tono così freddo. Ho sempre cercato di non pesare. Non ho mai chiesto nulla di superfluo, non mi sono lamentata, non ho preteso vestiti alla moda come le mie compagne di classe. Sogno di entrare all’università, trovare un lavoro, essere indipendente. Ma credevo di avere una famiglia che mi sarebbe stata vicina, anche se avessi sbagliato. E ora invece? Mia madre ha detto chiaro: dopo i diciotto, sono da sola. E quel “non essere come noi” – cosa voleva dire? Che diventerò irresponsabile come loro? O che dovrei dimenticare la famiglia, come hanno fatto loro?

Ho provato a parlare con mio padre, sperando che mi sostenesse. Ma ha solo scrollato le spalle: “Ginevra, tua madre ha ragione. Ti nutriamo, ti vestiamo, poi sarà la tua vita.” La mia vita? E la loro nella mia? Dov’è il loro sostegno quando studio tutta la notte per gli esami? Dov’è l’orgoglio quando porto a casa i premi? Non mi chiedono mai come va, e ora questo ultimatum. Mi sento come se mi avessero già cancellata dalla famiglia.

Ne ho parlato con la mia amica. Mi ha ascoltato e ha detto: “Ginevra, hanno solo paura che tu dipenda da loro. Dimostra loro che vali di più.” Di più? Io già faccio del mio meglio! Studio, do ripetizioni, risparmio per un computer. Ma ho sedici anni, non posso diventare adulta in un giorno e risolvere tutto. E non voglio dimostrare nulla a genitori che mi vedono come un peso. Voglio che siano al mio fianco, che possa andare da loro se ho paura o fatica. Invece mi danno una data di scadenza.

Ora rifletto su cosa fare. Una parte di me vuole andare via subito – prendere una stanza, trovare un lavoro, dimostrarMa so che per ora non posso, perché la scuola e gli esami sono la mia priorità, e un giorno dimostrerò a me stessa che posso farcela, con o senza il loro aiuto.

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