Il germoglio rosso dell’amore
Antonia era inginocchiata tra le aiuole, strappando erbacce, quando sentì una voce oltre il cancello. Si asciugò il sudore dalla fronte, si raddrizzò e uscì in cortile. Davanti al cancello c’era una donna sconosciuta, sui quarant’anni.
—Antonia, buongiorno. Ho bisogno di parlarti — disse con decisione.
—Buongiorno… Entra, se sei venuta fin qui — rispose Antonia, asciutta, facendola passare.
In cucina, mentre l’acqua bolliva, Antonia osservava l’ospite di nascosto. Un viso stanco, occhi strizzati dal sole. Qualunque cosa volesse, non sarebbe stata una chiacchierata leggera.
—Mi chiamo Nina. Non ci conosciamo, ma ho sentito parlare di te. Non farò giri di parole… Tuo marito, che riposa in pace, aveva un figlio. Un bambino di tre anni. Si chiama Michele.
Antonia si bloccò, fissandola in silenzio. Sembrava troppo vecchia per essere la madre di un bambino così piccolo.
—Non è mio — capì lo sguardo di Antonia. — Era di Caterina, la mia vicina. Il tuo Giorgio andava da lei… e così è andata. Il piccolo è rosso di capelli, pieno di lentiggini, identico a tuo marito. Non servono esami. Ma… Caterina è morta. Una polmonite trascurata, non ce l’ha fatta. Il bambino è rimasto solo.
Antonia tacque, stringendo la tazza tra le mani.
—Caterina non aveva famiglia, nessuno. Lavorava in un negozio, affittava una stanza. Se nessuno lo prende, il bimbo andrà in orfanotrofio. Tu… sei la moglie di Giorgio, hai due figlie. Non è un estraneo. È il loro fratello.
—E a me che importa? Ho già i miei figli! Vuoi che mi prenda un bambino altrui, dopo tutto questo? — la voce di Antonia tremò. — Prendilo tu, se sei così buona.
—Io ho fatto la mia parte. A te la scelta. Il piccolo è dolce, affettuoso… È ancora in ospedale, stanno sistemando i documenti. Il tempo passa — con queste parole, Nina si alzò e se ne andò.
Antonia rimase in cucina. Il tè si raffreddò, mentre i ricordi affollavano la sua mente.
Giorgio lo aveva conosciuto dopo l’università. Rosso di capelli, allegro, pieno di poesie e barzellette stupide. Si erano sposati un anno dopo, la nonna aveva lasciato loro la casa. Nacquero prima Viola, poi Elena. I soldi erano pochi, ma ressero. Poi Giorgio cominciò a bere. Svaniva per giorni, mentiva, perdeva lavori. Antonia si spezzava la schiena, pensava al divorzio. E lui… morì, ubriaco, travolto da un’auto.
Piansero tutti. Persino Elena, ancora piccola. E ora, a quanto pare, Giorgio aveva un figlio…
In quel momento Viola irruppe in casa.
—Mamma, perché sei così triste? Dobbiamo andare al cinema, ma ho fame…
Antonia mise sul tavolo un piatto di patate lesse e salsicce senza rispondere.
—Sai che hai un fratello?
—Cosa? Che fratello? — Viola si bloccò.
—Il figlio di tuo padre. Tre anni. Sua madre è morta. Lo mandano in orfanotrofio. Ecco tutto.
—Lo conosci? La madre?
—No. Dicono che si chiamasse Caterina, non era di qui. Lavorava in un negozio. Tutto qui.
Il giorno dopo, Viola raggiunse Antonia in cucina.
—Mamma, siamo andate in ospedale con Elena. Abbiamo visto Michele. Lui… ci somiglia, mamma. Rotondetto, rosso di capelli. Era in piedi nel lettino e ci tendeva le braccia. Gli abbiamo dato una mela, un’arancia. Piangeva, chiamava la mamma…
—Ma che vi è saltato in mente?! — sbottò Antonia. — Lavoro tutto il giorno, voi studiate, i soldi bastano a stento, e adesso mi ci mettete pure un altro bambino? Ma come pensate di fare?
—Mamma, sei sempre tu che dici: i bambini non hanno colpe. Non è caduto dal cielo, è nostro. Di sangue. Non è colpa sua se papà l’ha messo al mondo così!
—Non ci sono soldi! — gridò Antonia. — Elena deve studiare, tu devi iscriverti all’università, e io dovrei sfamare un’altra bocca?
—Se lo prendiamo in affido, danno un sussidio. Mamma, sei una donna… guardalo. Solo guardalo.
Antonia cedette il terzo giorno. Andò in ospedale. All’ingresso c’era un’infermiera.
—Il piccolo Michele… tre anni. Dicono che lo mandino in orfanotrofio…
—Voi chi siete per lui?
—La moglie di suo padre. Morto… voglio solo vederlo, guardarlo…
—Ieri ci sono state due ragazzine. Vostre figlie, immagino. Ora piange continuamente. Su, entri.
Antonia aprì la porta. E si fermò. Nel lettino c’era un bambino rosso di capelli. Identico a Giorgio. Occhi azzurri, ricci ribelli.
—Zia… — sussurrò. — Dov’è la mia mamma?
—Non c’è più, Michelino…
Scoppiò in lacrime. Antonia si avvicinò, lo prese in braccio. Accarezzandogli la testa, sentì qualcosa spezzarsi dentro.
—Portami via… Ho fame… Voglio andare a casa…
Il giorno dopo, Antonia raccolse i documenti. Uscì prima dal lavoro, firmò l’affido. Presentò la domanda.
Passarono quindici anni.
—Mamma, non preoccuparti. Ti prometto che andrà tutto bene. Ascolterò il comandante, scriverò. Un anno è niente, passerà in fretta. Poi andrò a lavorare dallo zio di Ale, sai che con le macchine me la cavo.
—Il mio meccanico… — Antonia passò una mano tra quei ricci rossi, che non erano mai diventati un taglio decente.
Davanti a lei c’era un ragazzo alto, non più un bambino. Suo figlio.
Antonia lo strinse forte. Un nodo le serrò il petto. Era cresciuto.
—Ricordati, Mic… Non aver paura di seguire il cuore. Come ho fatto io una volta. La vita non è fatta solo di calcoli.
Il bambino portato dal dolore era diventato un senso. L’amore, passato attraverso il tradimento, non si indebolisce. Si purifica.