In una tranquilla mattina, in una piccola casa alla periferia di Firenze, regnava il solito silenzio che Paolo amava tanto. Una luce delicata filtrava attraverso le tende, dalla cucina si diffondeva l’aroma del caffè appena fatto, e finalmente aveva un raro momento per sedersi con un libro. Ma quel giorno, la quiete veniva interrotta da strani rumori—un trascinamento goffo, uno schizzo d’acqua e un sommesso «accidenti» infantile, come se qualcuno avesse spiattellato una parola rubata agli adulti.
Paolo si affacciò nel corridoio e si bloccò. C’era suo nipote, Matteo.
Piccolo, con una chioma arruffata, in un pigiama stampato con razzi spaziali, cercava seriamente di passare lungo il corridoio… con i vecchi stivali di cuoio che solitamente riposavano accanto alla porta. Quegli stivali che Matteo chiamava «di papà». Anche se papà, Luca, era lontano da tempo—partito per un lungo viaggio di lavoro di sei mesi, lasciando la famiglia nell’attesa.
«Matteo, cosa stai facendo?» chiese piano Paolo, timoroso di rompere quel fragile istante.
Il bambino non si voltò, concentrato sui suoi piedi.
«Voglio provare a essere grande» rispose, facendo un passo incerto. Uno stivalaccio scivolò via, e Matteo sbuffò, chinandosi per riaggiustarlo.
Paolo si sedette sulla panca vicino al muro, sentendo il cuore stringersi di tenerezza. Sapeva: in quel momento non doveva intervenire. A volte, ai bambini bisogna lasciar provare qualcosa di non loro, per capire se stessi.
«Credi che essere grandi sia facile?» domandò dopo una pausa, cercando di non distrarre la concentrazione del nipote.
Matteo annuì, senza staccare gli occhi dagli stivali.
«Beh, tu e papà sapete tutto. E nessuno vi dice cosa fare.»
Paolo sorrise senza volerlo, ma in quel sorriso c’era amarezza. Si ricordò di quando, da bambino, aveva messo gli stivali del padre—pesanti, enormi, con la pelle consumata. Allora gli sembrava che indossandoli sarebbe diventato subito più forte, più alto, quasi invincibile. Ma dopo pochi passi aveva capito quanto fossero scomodi: le dita ballavano, il tallone scivolava, ogni passo era una lotta.
«Sai,» cominciò Paolo, «con questi stivali tuo papà andò al suo primo lavoro. Sono vecchi, ma li ha tenuti. Diceva che con loro iniziò la sua vita da grande.»
Matteo si fermò, fissando gli stivali. I suoi occhi, troppo seri per un bambino di sette anni, brillavano di curiosità e qualcos’altro—come se cercasse di cogliere, in quei giganti di pelle logora, tracce del destino paterno.
«Voglio camminarci lo stesso» disse con ostinazione. «Per iniziare anch’io.»
«Solo per poco» rispose Paolo dolcemente. «Poi torna alle tue pantofole. Avrai tempo per diventare grande.»
Matteo annuì e, barcollando, fece altri passi. Il suo viso era teso, ogni movimento una piccola impresa. Nei suoi gesti c’era una determinazione, come se non stesse attraversando il corridoio ma un ponte invisibile verso il futuro.
Paolo osservò il nipote, e nel petto si diffuse un calore profondo. Essere grandi non riguardava gli stivali, né un abito elegante o il sapere tutte le risposte. Riguardava alzarsi la mattina anche quando tutto dentro urla di restare a letto. Riguardava perdonare, anche quando nessuno lo chiede. Riguardava proteggere chi si ama, anche se il cuore trema di paura.
Ma tutto inizia così—con un bambino piccolo che infila gli stivaloni del padre e fa il primo, maldestro passo in un mondo ancora troppo grande per lui.