Giovanna Rossi riponeva in una scatola vecchie fotografie quando ne trovò una del ballo di maturità. Quarant’anni prima, posava accanto a Michele che le cingeva le spalle con delicatezza, quasi temesse di spaventarla. Sorridevano entrambi nello scatto, ma Giovanna ricordava le mani tremanti quando Michele le aveva chiesto di fare insieme quella foto.
«Gio’, possiamo?» aveva balbettato lui, arrossendo ed evitando il suo sguardo. «Solo per ricordo…»
Lei aveva annuito in silenzio, il cuore in gola tanto da sembrare udibile in tutta la sala. Durante l’ultimo anno di liceo Michele l’aveva sempre accompagnata a casa, portato la cartella, aiutata in matematica. Mentre lei fingeva indifferenza.
Oggi, dopo la morte del marito, riordinando cimeli, Giovanna capiva tutto ciò che aveva perso. Vittorio aveva condiviso con lei trentacinque anni, uomo onesto, padre affettuoso per i loro due figli. Ma il suo cuore serbava quel ragazzo timido del ballo.
«Mamma, che combinì?» sbirciò in camera la figlia Beatrice. «Serve aiuto?»
«Nulla, guardavo vecchie foto. Ecco com’ero giovane» mostrò Giovanna.
Beatrice studiò l’immagine. «Chi è accanto a te? Non è papà…»
«Un compagno di scuola» tagliò corto la madre.
«Bello. E ha quello sguardo… innamorato» sorrise Beatrice. «Fu un colpo di fulmine?»
Giovanna si voltò verso la finestra. Fuori piovigginava, gocce d’ottobre riflettevano foglie gialle d’acero.
«Solo amicizia» sussurrò. Poi aggiunse, quasi giustificandosi: «Lui all’istituto tecnico, io all’università. Destini diversi.»
Beatrice scrollò le spalle, posò la foto e uscì. Giovanna restò coi suoi ricordi.
Dopo la maturità si videro poche volte. Michele veniva a casa sua, sedevano in cucina a bere caffè. La madre Anna gli voleva bene. «Bravo ragazzo» diceva alla figlia. «Serio, lavoratore. Ti guarda come un santo l’icona.»
«Mamma, non inventare» la respingeva Giovanna. «Solo amici.»
«Amici» sospirava Anna. «Alla tua età io preparavo il corredo.»
L’ultima volta Michele arrivò ad agosto, prima degli studi. Giovanna preparava medicina, libri di chimica e biologia ammucchiati sulla scrivania, appunti dappertutto.
«Disturbo?» chiese sulla soglia.
«Entra» fece lei senza alzare gli occhi dal libro.
Michele sedette, tacque a lungo, poi esplose: «Gio’, sposiamoci.»
Le mancò il fiato. Lo fissò: lui stava dritto, mani sulle ginocchia, ogni parola un macigno.
«Dico sul serio» continuò. «Ti amo… da sempre. Dalla quinta elementare. Non voglio altre. Tu studi, io lavoro, cerco casa. Ti aspetto, poi… faremo famiglia.»
Giovanna lo guardò senza voce. Dentro un groviglio di sì, voglia di abbracciarlo. Ma qualcosa la bloccò: timore di sembrare leggera? Desiderio di laurearsi? O solo paura di quell’amore travolgente?
«Michele, io…» iniziò, ma lui la interruppe:
«Non rispondere ora. Pensa. Aspetto.»
Una settimana dopo Giovanna partì per l’università a Milano. Non diede mai risposta a Michele. Tornata studentessa, lui frequentava Clara, loro compagna di
seduti in cucina a bere tè mentre la madre di Giovanna, Anna, lo guardava con evidente simpatia.
«Un bravo ragazzo» diceva alla figlia, «lavoratore, serio, e ti guarda come se fossi una santa».
«Mamma, non inventare» ribatteva Giovanna scrollando le spalle, «siamo solo amici».
«Amici» sospirava Anna, «alla tua età io preparavo già il corredo nuziale».
L’ultima volta Michele apparve ad agosto, prima dell’inizio delle lezioni, trovando Giovanna immersa nei libri di medicina tra pile di appunti e manuali di biologia.
«Disturbo?» chiese sulla soglia, e al suo cenno d’assenso sedette di fronte a lei, rimanendo in silenzio prima di sfoderare la proposta: «Gio, sposiamoci».
Lei alzò gli occhi dal libro col cuore in gola, incrociando il suo sguardo carico d’emozione mentre lui proseguiva: «Ti amo da sempre, dalla quinta elementare, lavorerò sodo e aspetterò che tu laurei per costruirci una famiglia».
Giovanna sentì impazzire ogni cellula del corpo, ma una morsa d’incertezza le bloccò le parole: forse il timore d’essere giudicata superficiale, o quel desiderio di laurearsi prima d’immergersi nell’amore.
«Non rispondere ora» la anticipò lui, «pensaci».
Una settimana dopo partì per Milano senza dargli risposta, e al ritorno da matricola scoprì che Michele frequentava la loro compagna Clara.
Giovanna sospirò riponendo la foto, ricordando nitido l’anello di fidanzamento di Clara, i saluti imbarazzati per strada, gli auguri di felicità mai sinceri.
All’università conobbe Vittorio, più grande, sicuro di sé, che la corteggiò con rose e teatro fino alle nozze sul terzo anno: un matrimonio sontuoso che fece invidia.
«Mammina, tu papà l’hai amato?» chiese Beatrice ormai adulta, e Giovanna rispose sinceramente di sì.
Fu vero, ma diversamente, con un affetto domestico e calmo, mai quel tumulto che avrebbe potuto essere con Michele.
Vittorio fu marito esemplare, il lavoro di medico di Giovanna, i figli, la casa: vita normale.
Incidentalmente incrociava Michele invecchiato, i capelli grigi ma gli occhi buoni di sempre, chiacchierate brevi sul tempo o sui tre figli che aveva avuto con Clara nella periferia cittadina.
L’ultimo incontro fu in ospedale: Vittorio in cardiologia dopo l’infarto, Michele nel letto vicino per problemi al cuore.
S’incontrarono nel corridoio.
«Ricordi la mia proposta? Nella tua stanza, alla scrivania…» disse lui mentre Giovanna annuiva muta, e poi aggiunse: «Dovevo dirti “ti amo” invece di chiederti di sposarmi, magari avresti risposto».
Lei tentò di deviare il discorso sui bei figli di Clara, ma Michele sussurrò: «Con Clara ho fatto una vita, ma ho amato solo te».
Fu allora che Giovanna capì: aveva amato sempre lui, non Vittorio.
La morte di Michele per un secondo infarcito, un mese dopo, la lasciò arida al funerale.
A casa si sfogò nel cuscino, piangendo quel “ti amo” mai detto, quelle volte che rallentava davanti alla fabbrica sperando d’incontrarlo, quelle foto conservate come reliquie.
Ora, nell’ordinare gli oggetti di Vittorio scomparso da sei mesi, Giovanna ripensò a tutto.
«Mangiamo?» richiamò Beatrice dalla cucina.
«Arrivo» rispose lei, stringendo la foto dei diciotto anni al petto come un talismano prima di sussurrare: «Perdonami Michele, ti ho amato sempre, solo arrivò tardi».
Posò la cornice accanto al ritratto di Vittorio sul comò: due uomini legittimi della sua esistenza, uno il presente vissuto, l’altro il forse mai nato.
«Mamma!» insisteva Beatrice.
«Vengo, piccola» disse, e uscì lasciando quella giovane promessa d’amore vigile tra le pareti silenziose.