Mi chiamo Anna. Ho quarantadue anni. Una famiglia mi aspetta a casa: mio marito e due bellissimi figli. Viviamo all’estero, in Germania, dove ci siamo trasferiti quindici anni fa. Era la nostra scelta consapevole per ricominciare da zero: lasciarci alle spalle la povertà, costruirci una vita dignitosa e dare ai nostri figli la possibilità di crescere felici.
Veniamo da un piccolo paesino in Sicilia. All’inizio, dopo il matrimonio, abbiamo vissuto con i miei genitori e i suoi, alternandoci. Ma dopo tre anni è stato chiaro: se volevamo vivere in pace e armonia, dovevamo andarcene. E così abbiamo fatto.
All’inizio è stato difficile. Lavoravamo in nero, risparmiavamo ogni centesimo. Facevo la babysitter, mio marito lavava macchine. Affittavamo un bilocale nella periferia di Berlino. Ma eravamo uniti. Insieme abbiamo messo da parte i soldi, insieme siamo cresciuti. Dopo qualche anno è nato nostro figlio, poi nostra figlia. Avevamo già il permesso di soggiorno, un mutuo per una casa e lavori che ci permettevano non solo di sopravvivere, ma di vivere.
I bambini vanno a scuola, frequentano corsi extrascolastici, crescono con amore e rispetto. Non siamo ricchi, ma ci basta. Non chiediamo aiuto a nessuno. Ce l’abbiamo fatta da soli.
Ed è in questo momento che arrivano le chiamate dei miei genitori. Mamma e papà sono rimasti in Sicilia. In tutti questi anni non sono mai venuti a trovarci. Non hanno mai mandato un regalo ai bambini, nemmeno una parola di gratitudine. Io, quando potevo, mandavo soldi. Pagavo medicine, spedivo pacchi con vestiti. In cambio, solo rimproveri: «Voi lì in Germania vivete come re, e noi qui nella miseria!»
Poi è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mia madre ha detto: «Abbiamo deciso di trasferirci da voi. Qui non c’è più niente per noi. Da voi c’è caldo, cibo, i nipoti vicini.» E ha aggiunto che ovviamente il trasloco lo avremmo pagato noi, e che sarebbero vissuti con noi.
Sono rimasta di sasso. Non era una richiesta. Era un ordine.
Non si sono nemmeno chiesti se per noi fosse comodo. Se potevamo permettercelo. Se avevamo una stanza in più. No. Hanno semplicemente deciso che «ora tocca a voi occuparvi di noi.» Ma nessuno si è chiesto se qualcuno si è mai occupato di me?
Quando stavo male, mamma non è venuta. Quando io e mio marito facevamo la fame i primi mesi in Germania, non ci ha mandato neanche una bustina di tè. Quando sono nati i bambini, non c’è stato un sonaglino, né una copertina dalla nonna. E ora dovrei rinunciare alla tranquillità, alla serenità di casa, alla mia famiglia per chi un tempo ha rinunciato a me?
Non sono una persona crudele. Non mi rifiuto di aiutare. Già lo faccio, moralmente e materialmente. Ma non voglio che i miei figli crescano nella tensione, tra rimproveri e capricci. Non voglio che mio marito la sera esca di casa pur di non sentire mia madre che fa la predica a tutti.
Perché i miei figli dovrebbero dividere la stanza solo perché la nonna ha deciso che «non ha abbastanza spazio»? Perché mio marito dovrebbe vivere in una casa dove lo considerano obbligato a «portare in giro, sfamare, pulire»?
Perché dovremmo trasformarci tutti in servitori solo perché qualcuno vuole una vecchiaia comoda?
So che c’è chi dirà: «Ti hanno dato la vita!» Ma la genitorialità si misura solo con la biologia?
Da piccola non ho mai ricevuto regali. A Natale niente feste, ai compleanni niente torte. Mi compravano vestiti usati, scarpe ogni due anni. Non ho mai visto un weekend in famiglia. Non mi hanno amata, mi hanno tollerata.
Sì, hanno tirato su me. Ma io sono cresciuta non grazie a loro, nonostante loro.
Ora mi dicono che devo. Che devo «garantire loro una vecchiaia dignitosa». Ma io forse gli ho portato via la gioventù? Non voglio togliere ai miei figli la serenità. Non voglio pagare per gli errori degli altri.
Potrà sembrare egoista, ma scelgo i miei figli. Scelgo mio marito. Scelgo la nostra casa, dove c’è luce, calore e amore. Dove non c’è paura, rimproveri e debiti del passato.
Non smetterò di aiutare i miei genitori. Ma non permetterò che distruggano la mia vita. Né per senso di colpa, né per finta solidarietà familiare. I miei figli devono ancora vivere. E la loro vita non sarà sacrificata alle decisioni altrui.