Mi chiamo Isabella. Ho quarantadue anni. Una famiglia, un marito e due splendidi figli: questa è la mia vita. Viviamo all’estero, in Spagna, dove ci siamo trasferiti quindici anni fa. Una scelta consapevole, per ricominciare da zero: lasciarci alle spalle la povertà, costruire un futuro dignitoso e regalare ai nostri figli un’infanzia felice.
Veniamo da un piccolo paesino in Calabria. Dopo il matrimonio, abbiamo vissuto alternandoci tra i miei genitori e i suoi. Ma dopo tre anni, era chiaro: se volevamo serenità, dovevamo andarcene. E così facemmo.
I primi tempi furono duri. Lavoravamo in nero, risparmiavamo ogni centesimo. Io facevo la babysitter, mio marito lavava macchine. Affittavamo un bilocale nella periferia di Barcellona. Ma eravamo uniti. Insieme risparmiavamo, insieme lottavamo. Dopo qualche anno nacque nostro figlio, poi nostra figlia. Avevamo il permesso di soggiorno, un mutuo per una casa e lavori stabili che ci permettevano non solo di sopravvivere, ma di vivere.
I bambini vanno a scuola, fanno sport, crescono circondati da amore e rispetto. Non siamo ricchi, ma ci basta. Non chiediamo nulla a nessuno. Ci siamo fatti tutto da soli.
E poi, arriva la telefonata. I miei genitori sono rimasti in quel paesino. In tutti questi anni, non ci hanno mai visitato. Nessun regalo per i nipoti, nessun grazie. Io mandavo soldi quando potevo, pagavo le medicine, spedivo pacchi con vestiti. E loro? Solo rimproveri: «Voi in Spagna vivete come re, e noi qui nella miseria!»
Poi, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mia madre: «Abbiamo deciso di trasferirci da voi. Qui non c’è più niente per noi. Da voi c’è caldo, cibo, i nipoti vicini.» E ovviamente, il trasloco sarebbe stato a nostre spese, vivendo con noi.
Sono rimasta senza parole. Non era una proposta. Era un ordine.
Non ci hanno chiesto: «Avete spazio? Potete permettervelo?» Niente. Hanno solo decretato: «Ora tocca a voi occuparvi di noi.» Ma nessuno si è mai chiesto: chi si è occupato di me?
Quando ero malata, mia madre non è venuta. Quando mio marito ed io mangiavamo pane e acqua i primi mesi in Spagna, non ci ha mandato neanche un pacchetto di pasta. Quando sono nati i bambini, nessun vestitino dalla nonna. E ora dovrei rinunciare alla mia pace, alla mia casa, alla mia famiglia, per chi mi ha voltato le spalle?
Non sono crudele. Aiuto già, con i soldi e con il cuore. Ma non voglio che i miei figli crescano sotto stress, tra lamentele e capricci. Non voglio che mio marito scappi di casa per non sentire mia madre pontificare.
Perché i miei figli dovrebbero dividere la stanza perché la nonna si sente stretta? Perché mio marito dovrebbe sentirsi un servitore, obbligato a portare, nutrire, pulire?
Perché dovremmo diventare tutti infermieri, solo perché qualcuno vuole una vecchiaia comoda?
So cosa diranno: «Ti hanno dato la vita!» Ma essere genitori è solo questione di biologia?
Da piccola, non ho mai avuto regali. Niente torte per il compleanno, niente feste. I vestiti erano di seconda mano, le scarpe si compravano ogni due anni. Non c’è mai stata una vacanza in famiglia. Non mi amavano, mi tolleravano.
Mi hanno cresciuta, sì. Ma sono diventata chi sono non grazie a loro, nonostante loro.
Ora mi dicono che devo. Devo «garantirgli una vecchiaia dignitosa.» Ma io non gli ho rubato la giovinezza. Non voglio rubare la serenità ai miei figli. Non voglio pagare per i loro errori.
Sarà egoista, ma scelgo i miei figli. Scelgo mio marito. Scelgo la nostra casa, dove c’è luce, calore e amore. Dove non ci sono rimpianti, sensi di colpa o catene del passato.
Non smetterò di aiutarli. Ma non lascerò che mi distruggano la vita. Non in nome del dovere, né della «famiglia.» I miei figli hanno ancora una vita davanti. E non sarà un sacrificio per le scelte degli altri.