Aveva sessantasette anni, viveva sola e chiedeva ai figli di accoglierla in casa loro, ma loro rifiutavano. Non sapeva come andare avanti.
Adalgisa sedeva nel suo piccolo appartamento a Verona, fissando il vecchio televisore che ronza nell’angolo, senza però coprire il silenzio che impregnava la sua casa. Le sue mani, segnate dalle rughe, tremavano stringendo il telefono, dove non apparivano nuovi messaggi. Aveva appena chiamato il figlio, Adriano, e la figlia, Elisabetta, con la stessa richiesta: «Portatemi con voi, è dura stare da sola». Ma le loro risposte, seppur educate, le trafiggevano il cuore: «Mamma, qui non c’è spazio», «Mamma, adesso non è il momento». Adalgisa posò il telefono e scoppiò in lacrime, sentendo la solitudine stringerla in un abbraccio gelido. A sessantasette anni, non sapeva più come vivere.
La sua vita era stata piena di sacrifici. Adalgisa aveva cresciuto Adriano ed Elisabetta da sola, dopo che il marito era morto d’infarto quando i bambini avevano dieci e otto anni. Lavorava come sarta, passava le notti alla macchina da cucire perché avessero giacche pesanti e quaderni per la scuola. Si era privata di tutto — vestiti nuovi, viaggi al mare, anche solo un po’ di riposo — pur di non far mancare nulla ai suoi figli. Adriano era diventato avvocato, Elisabetta maestra, e Adalgisa era fiera di loro come se i loro successi fossero anche i suoi. Ma ora, con le forze che svanivano e la salute che vacillava, si sentiva inutile a tutti.
Non voleva essere un peso. Cercava di cavarsela da sola: preparava minestre semplici, andava a fare la spesa nonostante il dolore alle ginocchia, puliva la casa anche se le mani le obbedivano a fatica. Ma ogni giorno era una prova. Le scale fino al terzo piano sembravano una montagna, le buste della spesa pesavano come macigni, e le notti si trascinavano infinite. Aveva paura di cadere, di ammalarsi, di restare a terra in quell’appartamento vuoto dove nessuno l’avrebbe sentita chiamare. Sognava di vivere con i figli, di vedere i nipoti, di sentirsi ancora parte di una famiglia. Ma le sue richieste incontravano rifiuti, e ogni «no» era la conferma che la sua vita non contava più nulla.
Adriano viveva a Milano con la moglie e due bambini. Quando Adalgisa lo chiamava, rispondeva: «Mamma, siamo stretti, i piccoli fanno chiasso, qui non starai bene». Sentiva l’irritazione nella sua voce e capiva: non voleva sconvolgere la sua vita per lei. Elisabetta, che abitava a Bologna, era più gentile, ma le sue parole facevano male uguale: «Mamma, ci penseremo, ma ora è complicato, sono sempre al lavoro». Adalgisa immaginava i figli che parlavano di lei alle sue spalle, la chiamavano «il problema», e il cuore le si spezzava. Non chiedeva lussi — solo un angolo dove poter essere vicina, dove la sua voce potesse essere ascoltata. Ma anche quello era troppo.
Un giorno, dopo l’ennesimo rifiuto, Adalgisa si sedette a scrivere una lettera. Voleva mettere su carta tutto il suo dolore, ma finì per scrivere: «Vi amo, ma ho paura. Se non avete bisogno di me, ditelo pure». La spedì ad Adriano ed Elisabetta, ma non ricevette risposta. Il silenzio era peggio di qualsiasi parola. Adalgisa guardava le foto dei figli appese al muro e si chiedeva: «Dove ho sbagliato? Perché mi hanno voltato le spalle?». Ripensava a quando li abbracciava, cantava loro le ninne nanne, rinunciava a tutto, e non capiva come il suo amore l’avesse condotta a tanta solitudine.
I vicini cercavano di aiutarla. La signora Concetta del piano terra le portava torte salate, il ragazzo del quarto piano la aiutava con le buste. Ma la loro gentilezza rendeva ancora più evidente il vuoto: estranei si prendevano più cura di lei dei suoi stessi figli. Adalgisa cominciò a frequentare il circolo per anziani, dove cantava nel coro e imparava a lavorare a maglia. Là sorrideva, scherzava, ma al ritorno a casa, il silenzio la aspettava. I nipoti, che vedeva una volta all’anno, crescevano senza di lei, e questo pensiero la lacerava. Sognava di preparare loro le crespelle, di raccontare fiabe, ma invece restava seduta da sola, contando i giorni.
Ora Adalgisa cerca un senso in ogni giornata. Si è iscritta a un corso d’informatica per imparare a fare le videochiamate — forse i nipoti vorranno vederla. Coltiva fiori sul davanzale, sperando che i loro colori allevino la malinconia. Ma di notte, quando il sonno non arriva, piange e si domanda: «Perché a me?». Spera ancora che Adriano o Elisabetta cambino idea, che la chiamino per dirle: «Mamma, vieni». Ma con il tempo, quella speranza si dissolve. Adalgisa non sa quanto le resti, ma vuole vivere questi anni non nella solitudine, ma nel calore di una famiglia. E finché i suoi figli tacciono, impara ad amare se stessa — per la prima volta in sessantasette anni.