«Ho 68 anni e sono sola, ma i miei figli hanno rifiutato di ospitarmi»

Oggi compio sessantotto anni. Sono sola. Ho chiesto ai miei figli di prendermi con loro, e la risposta è stato un educato “no”.

Sono vedova da molto tempo. Mio marito se n’è andato in silenzio, nel sonno, senza una parola, senza un addio. Da allora, vivo come in una nebbia. I giorni si confondono, i volti sfumano, gli eventi non lasciano traccia. Lavoro ancora, non per soldi, ma per non impazzire in questo silenzio. Il lavoro è l’unico momento della giornata in cui mi sento ancora un po’ utile.

Non mi lamento. Constato semplicemente. Non ho passioni, hobby, sogni. Tutto ciò che era è ormai nel passato. Non cerco più, non provo, non spero. Forse è solo la vecchiaia. Ma quello che pesa di più non sono gli anni, ma la solitudine, che si è attaccata alle pareten del mio bilocale a Pavia come la muffa — silenziosa, invisibile, ma implacabile.

Così ho provato a osare. Ho pensato: e se offrissi a mio figlio e alla sua famiglia di trasferirsi da me? Lui ha tre bambini, la casa è stretta, mentre io ho una stanza libera, armadi pieni di lenzuola, spazio per i giochi. Sembrava logico: c’è posto, e anche la volontà. Ma non è così semplice.

Mio figlio mi ha ascoltato senza interrompere. Poi è arrivata la telefonata di mia nuora. Educata, ma con una freddezza nella voce.

“Lo sa, signora Bianchi, abbiamo già la nostra routine. I bambini sono abituati ai loro spazi. E poi, vivere sotto lo stesso tetto è complicato. Ognuno ha le proprie abitudini, i propri ritmi.”

Ho capito. Per loro sono un peso. Una vecchia da accudire, da sopportare. Eppure, non chiedevo molto: solo essere vicina.

Mia figlia… Con lei sarei stata felice. Ma ha la sua famiglia, le sue preoccupazioni. Non mi ha mai detto apertamente che non sono benvenuta, ma… mi basta lo sguardo di suo marito quando resto in cucina dopo cena. Mia figlia, però, è sempre accogliente: mi prepara il tè, mi ascolta, mi fa sentire a casa. Solo che, più vado da lei, più mi pesa tornare nel mio appartamento vuoto, dove l’orologio scandisce il tempo più forte della televisione.

Dicono che non sono vecchia. Che la vita non finisce con la pensione. Che potrei fare un viaggio, iscrivermi a un corso, provare lo yoga. “Ti sei chiusa al mondo,” ripetono.

“Mamma, davvero credi che stare con noi ti renderebbe felice?” mi chiede mia figlia. “Non riusciresti a rilassarti, ti sentiresti sempre fuori posto.”

“Trova qualcosa che ti piaccia davvero,” dice mio figlio. “Potresti andare in biblioteca, in piscina. Ci sono tante cose interessanti…”

Io resto in silenzio. Perché non so come spiegare che non mi servono hobby. Non mostre o passeggiate. Mi servirebbe una voce al mattino. Il rumore dei passi dei nipoti nel corridoio. Una tazza di tè preparata non solo per me. Qualcuno, semplicemente, accanto.

Mi dicono: “Potresti ancora incontrare l’amore.” E a me sembra già ridicolo. Dove vorrei andare, con le rughe, gli occhi stanchi, una memoria piena di passato e poco futuro?

Sì, sono viva. Ma ho la sensazione di vivere a lato. Accanto alle feste, alle conversazioni, alle risate che una volta risuonavano in cucina. Adesso c’è silenzio. E ci sono io.

Non chiedo pietà. Vorrei solo capire: perché sono di troppo nella vita di quelli per cui ho vegliato notti intere, per cui ho cucinato, stirato, curato la febbre? Perché in quelle case non c’è più un posto per me? Non sono un’estranea. Sono una madre. Una nonna. Di sangue.

Essere desiderati è davvero un lusso riservato solo ai giovani?

Non so come convincerli. Forse non devo neanche provarci. Forse l’orgoglio dovrebbe suggerirmi: “Vivi come puoi. Non imporre la tua presenza a nessuno.” Ma il cuore non conosce orgoglio. Si limita a sentire la mancanza. E sogna — nel suo modo antico — che un giorno squilli il telefono, e una voce dica:

“Mamma, ci abbiamo pensato. Vieni da noi. Ci manchi.”

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