Ho accolto la mia amica Giulia subito dopo il suo divorzio. Con il tempo ho capito che stavo diventando una sorta di domestica nella mia stessa casa.
Ci sono amicizie che superano di tutto: matrimoni, separazioni, figli, funerali. Ci conoscevamo da più di trentanni. Insieme abbiamo sostenuto gli esami, condiviso le prime delusioni amorose. Poi Giulia si è trasferita a Napoli, ma tornava sempre a Milano e con lei potevo essere me stessa.
Così, una sera mi ha chiamato, tutta a pezzi, e ha detto solo: «Non ho dove andare». Non ho esitato: «Vieni, hai sempre un posto qui».
I primi giorni sono stati come ai tempi della giovinezza: chiacchiere lunghe, risate, ricordi. Dopo la perdita di mio marito, la casa era troppo silenziosa, e la sua presenza mi rallegra. Ho cercato di viziarla: le ho preparato i pasti, le ho messo a disposizione il mio letto migliore, ho comprato asciugamani nuovi per farla sentire a suo agio. Lei ha promesso di restare un paio di settimane, finché non si sarebbe rimetta.
Ma è passato un mese… poi un altro. Non cercava un appartamento, non mandava curriculum, non si alzava la mattina «sto recuperando il sonno di tutti questi anni». Girava per la casa in accappatoio, occupava il divano e chiedeva: «Hai comprato il mio yogurt? Quello alla frutta», come se fosse la cosa più normale del mondo.
Piano piano ho iniziato a svanire. Rientravo dal lavoro e lei era già seduta sul tavolo, a sorseggiare il tè e a leggere il mio giornale. Quando le chiedei di fare almeno una minestra, rise: «Tu la fai meglio, a me non è cosa».
Ero sempre io a lavare i piatti, a fare la spesa, a riempire il frigo di quello che le piaceva. In bagno cerano solo i suoi cosmetici, in TV i suoi programmi.
Un giorno, quando ho invitato unaltra amica a prendere un caffè, Giulia ha protestato: «Non mi sento a mio agio con estranei in casa». Ha persino allontanato il mio gatto Micio, dicendo «sono allergica».
Per molto tempo lho giustificata dicendo che stava soffrendo per il divorzio, che era ferita, disorientata, che doveva resistere. Ma quando ha iniziato a spostare i mobili, sostenendo che «così è meglio», ho capito che aveva oltrepassato il limite.
Il momento più difficile è stato quando, dopo il lavoro, mi ha chiesto di ritirare i suoi vestiti dalla tintoria e di comprare il cibo perché «non ho la forza di uscire». Sono tornata, a malapena a malapena con le sacche, e lei ha chiesto: «Hai preso il detersivo giusto? Non ti confondere». In quel momento qualcosa dentro di me si è rotto.
Per la prima volta dopo tanto tempo ho parlato con decisione: «Dobbiamo parlare. Non può continuare così. Questa è casa mia, e devi cominciare a pensare a dove andranno i tuoi bagagli».
Allinizio Giulia è rimasta spiazzata, poi offesa, e ha sostenuto che «non capisci nulla» e che «pensavi solo a te stessa». È stato difficile, ma sapevo che se non avessi messo dei confini allora, avrei perso la mia identità.
Se ne è andata pochi giorni dopo, sbattendo la porta. Io mi sentivo in colpa, come se avessi tradito chi consideravo una famiglia. Ma a poco a poco la casa ha ricominciato a respirare. Ho ritrovato il senso di possedere il mio spazio, la mia vita, le mie regole.
Qualche mese dopo ho ricevuto un breve messaggio: «Scusa, credo in quel momento fossi totalmente persa. Grazie per avermi aiutata, anche se non lho valorizzata». Gli ho risposto augurandole il meglio e ho pensato: a volte la cosa più difficile è dire «no» a chi ti sta a cuore. Però, se non lo fai in tempo, rischi di perdere qualcosa di più prezioso: te stesso.






