Ho accolto la mia amica dopo il suo divorzio. E col passare del tempo, mi sono resa conto che piano piano stavo diventando una serva nella mia stessa casa.

Ho ospitato la mia amica Fiorenza subito dopo il suo divorzio e, piano piano, mi sono resa conto che stavo diventando una sorta di serva nella mia stessa casa.

Ci sono amicizie che resistono a tutto: matrimoni, separazioni, figli, funerali. Ci conosciamo da più di trent’anni, abbiamo fatto gli esami insieme, abbiamo vissuto le prime delusioni amorose. Poi Fiorenza si è trasferita a Napoli, ma tornava sempre a Milano e con lei potevo essere davvero me stessa.

Una sera mi ha chiamato, tutta a pezzi, e ha detto solo: «Non ho dove andare». Non ho esitato: «Vieni, hai sempre un posto nella mia casa».

I primi giorni sono stati come ai tempi della giovinezza: chiacchierate infinite, risate, ricordi. Dopo la morte di mio marito, la casa era troppo silenziosa, e la sua presenza mi ha fatto sentire meno sola. Ho cercato di prenderla cura: ho cucinato, le ho messo sul letto il migliore, ho comprato asciugamani nuovi per farla sentire a suo agio. Mi aveva promesso di stare solo un paio di settimane, finché si rimetteva.

Ma è passato un mese poi un altro. Non cercava un appartamento, non inviava curriculum, non si alzava al mattino «sto recuperando il sonno di tutti questi anni». Girava per casa in accappatoio, occupava il divano e mi chiedeva: «Hai comprato lo yogurt? Mi piace quello alla frutta», come se fosse la cosa più normale.

Pian piano ho iniziato a sentirmi svanire. Tornavo dal lavoro e lei era seduta a bere tè, a leggere il mio giornale. Quando le chiedei di preparare almeno una zuppa, rise: «Tu la fai meglio, a me non riesce».

Ero sempre io a lavare i piatti, a fare la spesa, a riempire il frigo con tutto quello che le piaceva. In bagno c’erano solo i suoi cosmetici, in televisione le sue serie.

Un giorno ho invitato unaltra amica a prendere un caffè e lei ha sbuffato: «Non mi sento a mio agio a ospitare estranei». Perfino il mio gatto, Micio, lallontanava «sono allergica», diceva.

Per molto tempo lho scusata, dicendo che stava soffrendo per il divorzio, che era ferita, disorientata, che doveva resistere. Ma il giorno in cui ha iniziato a spostare i mobili, sostenendo che «così è meglio», ho capito che aveva oltrepassato il limite.

Il momento più duro è stato quando mi ha chiesto, dopo il lavoro, di ritirare i suoi vestiti dalla tintoria e comprare il cibo «non ho la forza di uscire». Sono tornata a casa con le borse pesanti e lei ha chiesto: «Hai preso il detersivo giusto? Non sbagliarti».

Qualcosa dentro di me si è rotto. Per la prima volta da tanto tempo ho parlato con decisione:
«Dobbiamo parlare. Non può andare così. Questa è casa mia. Devi cominciare a pensare a dove ti trasferirai».

Allinizio Fiorenza è rimasta perplessa, poi si è offesa, dicendo che «non capisci nulla» e che «penso solo a me stessa». È stato difficile, ma sapevo che se non mettevo dei limiti adesso avrei perso la mia identità.

Se ne è andata qualche giorno dopo, sbattendo la porta, e io mi sentivo ancora in colpa, come se avessi tradito una persona che consideravo famiglia. Ma piano piano la casa ha ricominciato a respirare. Ho ritrovato la sensazione che fosse davvero la mia casa, la mia vita, le mie regole.

Qualche mese più tardi è arrivato un breve messaggio:
«Scusa, credo di essere stata persa in quel periodo. Grazie per avermi aiutata, anche se non lho valorizzata».

Gli ho risposto augurandole il meglio e ho pensato: a volte la cosa più difficile è dire «no» a chi ci sta a cuore. Se non lo facciamo in tempo, rischiamo di perdere qualcosa di molto più prezioso: noi stessi.

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