Ho accolto una senzatetto disprezzata da tutti nella mia galleria. Indicò un quadro e sussurrò: ‘È mio’.

Un giorno, mentre ero nella mia galleria darte, entrò una donna senzatetto che tutti disprezzavano. Indicò un quadro e sussurrò: “È mio.”

La galleria era il mio modo di restare vicino a lei senza lasciare che il dolore mi consumasse. La maggior parte dei giorni ero lì da solo: selezionavo opere di artisti locali, parlavo con i clienti abituali e cercavo di mantenere un equilibrio.

Il luogo stesso era caldo e accogliente. Un jazz soffuso proveniva dagli altoparlanti a soffitto. Il pavimento di quercia lucida scricchiolava appena, ricordando la realtà del silenzio. Quadri con cornici dorate catturavano i raggi del sole lungo le pareti.

Era un posto dove la gente parlava a bassa voce e fingeva di capire ogni pennellatacosa che, sinceramente, non mi disturbava. Quellatmosfera calma e misurata teneva lontano il caos del mondo esterno.

Poi arrivò lei.

Era un giovedì pomeriggio, umido e nuvoloso come al solito. Stavo sistemando una stampa storta vicino allingresso quando la vidi ferma fuori.

Una donna anziana, forse a fine sessantanni, il cui aspetto sembrava dire che il mondo laveva dimenticata da tempo. Stava sotto la grondaia, cercando di trattenere un tremore.

Il cappotto sembrava appartenere a unaltra epocasottile, logoro, e aderente come se avesse dimenticato come tenere qualcuno al caldo. I capelli grigi erano arruffati, la pioggia li aveva appiattiti. Sembrava voler scomparire nel muro di mattoni dietro di lei.

Mi bloccai. Non sapevo cosa fare.

In quel momento arrivarono i clienti fissi. Puntuali come sempre. Erano treun vortice di profumi eleganti e opinioni compiaciute. Signore anziane, cappotti su misura, sciarpe di seta, tacchi che risuonavano come segni di punteggiatura.

Appena la videro, laria si ghiacciò.

“Dio, che puzza!” sussurrò una, avvicinandosi allamica.

“Mi sta rovinando le scarpe!” sbottò unaltra.

“Signore, permette questo? La butti fuori!” disse la terza, guardandomi dritto negli occhi con espressione aspettante.

Guardai di nuovo la donna. Era ancora lì, indecisa se restare o scappare.

“Indossa ancora quel cappotto?” commentò qualcuno dietro di me. “Non lo lavano dagli anni Ottanta.”

“Non può nemmeno permettersi scarpe decenti.”

“Perché lasciarla entrare?” fu lultimo giudizio sprezzante.

Attraverso il vetro, vidi le sue spalle crollare. Non per vergogna, ma come chi ha sentito quelle parole così tante volte da farle diventare rumore di fondoeppure ancora dolorose.

Livia, la mia assistenteuna ragazza sui ventanni, studente di storia dellartemi guardò nervosa. Aveva uno sguardo gentile e una voce così bassa che spesso si perdeva nei rumori della galleria.

“Vuoi che…” iniziò, ma la interruppi.

“No,” dissi deciso. “Lasciamola stare.”

Livia esitò, poi annuì e si spostò.

La donna entrò lentamente, con cautela. Il campanello sopra la porta suonò piano, come se nemmeno lui sapesse come annunciarla. Dagli stivali gocciolava acqua, lasciando macchie scure sul pavimento. Il cappotto le pendeva addosso, bagnato e consumato, sotto il quale si intravedeva un maglione sbiadito.

Sentii i sussurri attorno a me diventare più taglienti.

“Non dovrebbe essere qui.”

“Probabilmente non sa nemmeno scrivere galleria.”

“Rovina latmosfera.”

Non dissi nulla. Le mani mi si strinsero a pugno, ma la voce rimase calma, il volto neutro. La osservai camminare per la sala, come se ogni quadro contenesse un pezzo della sua storia. Non incerta o timida, ma determinata. Come se vedesse qualcosa che noi non riuscivamo a cogliere.

Mi avvicinai e la osservai meglio. I suoi occhi non erano spenti, come pensavano gli altri. Erano acutioltre le rughe e la stanchezza. Si fermò davanti a un piccolo quadro impressionistauna donna seduta sotto un ciliegioe inclinò leggermente la testa, come cercando di ricordare qualcosa.

Poi proseguì. Passò davanti a ritratti e opere astratte, fino a raggiungere la parete in fondo.

Lì si fermò.

Era uno dei quadri più grandi della galleriauno skyline urbano allalba. Arancioni vivaci si fondevano in violetti profondi, il cielo si confondeva con le ombre degli edifici. Avevo sempre amato quel quadro. Cera qualcosa di malinconicocome se qualcosa finisse mentre stava appena iniziando.

La donna rimase immobile.

“È… è mio. Lho dipinto io,” sussurrò.

Mi girai verso di lei. Per un attimo pensai di aver capito male.

La stanza si ammutolì. Non un silenzio rispettoso, ma quello che precede una tempesta. Poi arrivarono le risateacute, stridenti, rimbalzando sui muri come lame.

“Certo, cara,” disse una signora con sarcasmo. “Questo è tuo? Forse hai dipinto anche la Gioconda?”

Unaltra rise, chinandosi verso lamica:

“Te lo immagini? Probabilmente non si lava da una settimana. Guarda quel cappotto!”

“È patetico,” commentò qualcuno dietro di me. “Ha perso completamente la testa.”

Ma la donna non batté ciglio. Il suo viso rimase impassibile, solo il mento si sollevò leggermente. Le mani tremavano mentre indicava langolo in basso a destra del quadro.

Era lì. Quasi invisibile, nascosto sotto gli strati di pittura, nellombra di un edificio: M. R.

Qualcosa si mosse dentro di me.

Avevo acquistato quel quadro due anni prima a unasta locale. Il precedente proprietario aveva detto solo che proveniva da un magazzino svuotato, venduto insieme ad altre operesenza storia, senza documenti. Mi era piaciuto.

Aveva parlato a me. Ma non ero mai riuscito a scoprire chi lavesse dipinto. Solo quelle iniziali sbiadite.

E ora eccola lì davanti a mesenza pretese, senza drammi, solo in silenzio.

“Il mio tramonto,” disse piano. “Ricordo ogni pennellata.”

La stanza rimase in silenzioquel tipo di silenzio che ha denti. Guardai i clienti; le loro espressioni altere vacillarono. Nessuno sapeva cosa dire.

Feci un passo avanti.

“Come si chiama?” chiesi piano.

Si girò verso di me.

“Maria,” disse. “Rossi.”

E qualcosa dentro di menel profondo del pettomi disse che quella storia era lontana dallessere finita.

“Maria?” ripetei dolcemente. “Si sieda, per favore. Parliamo un po.”

Si guardò intorno, come se non credesse che fossi serio. I suoi occhi tornarono al quadro, poi alle facce sprezzanti intorno a noi, infine a me. Dopo una lunga pausa, annuì leggermente.

Liviala mia eroina silenziosaapparve con una sedia prima che potessi dire altro. Maria si sedette lentamente, con cautela, come se temesse di rompere qualcosa o di essere cacciata da un momento allaltro.

Laria era tesa. Le signore che prima la deridevano ora le voltavano le spalle, fingendo di studiare i quadri vicini, continuando a suss

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

2 × two =

Ho accolto una senzatetto disprezzata da tutti nella mia galleria. Indicò un quadro e sussurrò: ‘È mio’.