**Diario di un padre**
Forse era un segno? Maria si fermò davanti al cancello, lo sguardo fisso su una mela caduta proprio davanti a lei, spaccata in due.
Nicola raccolse in silenzio le due metà. Ne porse una alla moglie. I suoi occhi dicevano più di qualsiasi parola.
Sesto test. La sesta delusione.
Ma invece di lacrime, solo una decisione ferma.
“Domani andiamo in città,” disse Maria, addentando un pezzo di mela. “All’orfanotrofio.”
La loro casa sorgeva su una collina, circondata da un giardino dove d’estate ronzavano le api tra gli alberi e d’inverno la neve ammantava dolcemente i nidi degli uccelli. Vecchia, a due piani, con finestre intagliate e una veranda spaziosanon era solo una casa, ma un essere vivente che respirava con loro.
“Sei sicura?” Nicola accarezzò la corteccia ruvida del vecchio melo.
Maria annuì. Sei mesi prima avevano ricevuto la diagnosi: non avrebbero mai avuto figli. Ma invece del dolore, era arrivata una strana calma, come se il destino sussurrasse: *Non è una fine, ma un inizio.*
La mattina dopo partirono con il vecchio furgoncino blu. Percorsero strade di campagna sinuose, attraversando campi bagnati di rugiada. Maria fissava il finestrino, le labbra che si muovevano in una preghiera senza voce. Nicola sapeva che pregavanon con parole, ma con tutto il cuore.
Le strinse la mano con forza.
“Non scegliamo il sangue, ma l’anima sa dove crescere.”
Lorfanotrofio li accolse con luce alle finestre e il profumo di biscotti appena sfornati. Era pulito, ordinato, ma nell’aria cera una tristezza invisibilecome se ogni angolo ricordasse cosa significasse essere abbandonati. La direttrice, una donna dagli occhi buoni e un sorriso stanco, li condusse nella sala giochi.
“Non aspettatevi che accada subito,” avvertì. “A volte il legame nasce non al primo passo, ma al secondo. O al decimo.”
Eppure, accadde linaspettato.
In un angolo, lontana dal chiasso degli altri bambini, cera una bambina. Piccola, fragile, ma con unespressione così concentrata da sembrare consapevole che proprio lì si stesse decidendo il suo futuro.
Una matita nella mano, disegnava con sicurezza. La punta della lingua sporgenteil segno di chi sa osservare, come tutti i veri artisti.
“Questa è Ginevra,” sussurrò la direttrice. “I suoi genitori non si sono mai fatti vivi. Parla poco, spesso immersa nei suoi pensieri.”
Maria si avvicinò lentamente. La bambina alzò gli occhi. E in quello sguardo, Maria vide qualcosa di più della semplice curiosità. Qualcosa di antico, di familiare.
“Cosa stai disegnando?” chiese, indicando il foglio.
“Una casa,” rispose Ginevra, sorprendentemente calma per una bimba di quattro anni. “Ha un camino, e intorno ci sono uccelli. Portano fortuna. Lho letto in un libro.”
Il cuore di Maria tremò come una corda al primo tocco.
Tese la mano. Ginevra ci pensò un attimo, poi posò la sua manina in quella stranieraleggera, fiduciosa.
“Nel nostro giardino ci sono anche degli uccelli,” disse Nicola, accovacciandosi accanto a loro. “E le api. Fanno il miele. Ma a volte pungono.”
“Perché?” chiese Ginevra.
“Solo se le fai arrabbiare,” rispose lui. “Ognuno ha il diritto di difendersi.”
La bambina annuì pensierosa. Poi, allimprovviso, gettò le braccia al collo di Maria. Lei trattenne il respiro. Una lacrima le scivolò lungo la guancia.
Novantadue giorni di burocrazia e attese dopo, tornarono allorfanotrofio. Ma questa volta non come visitatori. Come genitori.
Ginevra era sulla soglia, tremante. In mano uno zaino logoro, sulle spalle un coraggio che ancora non sapeva di essere tale. Al collo, un ciondolo di ghianda regalatole da unaltra bambina.
I saluti furono brevi. La direttrice la baciò sulla fronte, uneducatrice si asciugò le lacrime con un fazzoletto.
“Vai, piccola,” disse. “Ricorda solo che saremo sempre qui ad aspettarti.”
Durante il viaggio, Ginevra tacque, stringendo lo zaino. Quando arrivarono, scese e si fermò, come per assorbire la sua nuova vita.
“Questa è casa mia?” sussurrò, guardando la finestra illuminata della sua stanza.
“Ora è casa tua,” sorrise Maria. “E noi siamo la tua famiglia. Per sempre.”
Quella notte, un leggero bussare alla porta la svegliò. Ginevra era sulla soglia, stringendo un disegno di una casa dove ogni finestra brillava come una promessa.
“Posso dormire con voi stasera?” chiese a malapena udibile. “Solo per la prima notte”
Maria non rispose. Si spostò semplicemente, facendole spazio. Ginevra si infilò sotto le coperte. Il gatto rosso, fino a quel momento addormentato ai piedi del letto, si avvicinò, annusò la nuova padroncina e, soddisfatto, si acciambellò accanto a lei.
“Ora sei a casa,” sussurrò Maria, accarezzandole i capelli. “Qui non avrai mai più paura.”
Ginevra chiuse gli occhi. Per la prima volta da mesisenza paura, senza ansia. Al sicuro. Al caldo. A casa.
Dodici anni passarono come un mattino di maggio. Il sole dorava le cime degli alberi, laria profumava di fiori. Ginevra non era più una bambina, ma una ragazza che aiutava il padre con il miele nellapiario. Dorato, denso, profumato destate.
“Non avere fretta,” diceva Nicola, mostrandole come estrarre delicatamente i telai. “Le api sentono lagitazione. Se sei calma dentro, ti accetteranno come una di loro.”
Ginevra annuiva, ascoltando attentamente. Alta ora, con una lunga treccia e quegli stessi occhi grigi che tanto avevano colpito Maria anni prima.
“Posso andare da Sofia dopo pranzo?” chiese, pulendo la cera. “È il suo compleanno.”
“Certo,” sorrise Nicola. “Ma non tardare. Tua madre sta preparando qualcosa di speciale. Domani è anche il tuo giorno.”
Ginevra sorrise. Amava quei momenti: lodore del pane appena sfornato, la tovaglia buona in veranda, i piatti di porcellana con il bordo blu che usavano solo nelle occasioni importanti.
Quella sera, seduti sul portico, sbucciavano fragole. Laria era impregnata di lillà, erba e il primo vento della sera.
“Mamma,” disse improvvisamente Ginevra, “voglio studiare allAccademia dArte.”
Maria alzò un sopracciglio:
“In città?”
“Sì.”
“Lontano.”
“Due ore di treno. Non è la Luna.”
Maria rifletté. Davanti a lei non cera più la bambina che aveva paura di dormire da sola. Cera una giovane donna con il fuoco dei sogni negli occhi.
“Disegni meglio di chiunque altro a scuola,” disse infine. “Quindi devi andare dove potrai diventare ancora più brava.”
Ginevra labbracciò, appoggiando la guancia alla sua spalla:
“Non sparirò. Tornerò ogni weekend. E per