Ho cacciato mio figlio e la sua ragazza incinta. E non me ne pento. Neanche un po’.
Quando racconto la mia storia, le reazioni sono diverse. C’è chi mi giudica, chi mi compatisce, ma io dico sempre la stessa cosa: no, non mi vergogno. Perché ho fatto troppo per mio figlio per permettergli di vivere alle mie spalle e di portarmi anche una “famiglia” da mantenere.
Ero una madre single. Mio marito – un pigro, un buono a nulla – non ha mai voluto essere un padre vero. Lavorare? Non era cosa per lui. Fumava in casa, beveva con gli amici, mi umiliava, viveva sulle mie spalle. Ho sopportato, ma a un certo punto ho capito: o sopravvivevo io, o sopravviveva lui. E me ne sono andata. L’ho cacciato, proprio come poi ho fatto con mio figlio.
Ho lavorato turni su turni, senza mai vedere la luce del sole, solo perché mio figlio Luca avesse tutto: cibo, vestiti, un tetto caldo, un sorriso. Ho comprato un bilocale in un bel quartiere. Ma mi è sfuggita la cosa più importante – il tempo e l’educazione.
Mia madre aiutava, ma troppo. Ha cresciuto Luca come un orfanello, un ragazzo a cui “il mondo doveva tutto”. Non sapeva fare niente. Né cucinare, né pulire, né dire un semplice “grazie”. Ma lamentarsi con la nonna? Quello sì. Io ero la cattiva, quella che lo costringeva a lavare i piatti, quella che non capiva la sua anima sensibile.
A sedici anni, Luca era già più forte di me fisicamente, ma alla minima chiamata di disciplina correva dalla nonna a piagnucolare. All’esercito, ovviamente, non è andato – la mamma l’ha “salvato”. Studiare? Non ne aveva voglia. Lavorare? Men che meno. Stava a casa, mangiucchiava, beveva con gli amici, spendeva i miei soldi e giocava al computer.
Poi, come un fulmine a ciel sereno: *«Mamma, Giulia è incinta»*. Giulia – la sua ragazzina di diciotto anni, al primo anno di università, senza un soldo né un’esperienza alle spalle. *«Vivremo da te»*, mi ha detto. Niente *«possiamo?»*, niente *«per favore»*, niente *«ti siamo grati»*. Solo una dichiarazione: *«Ora siamo in due, dacci da mangiare, vestiti e un tetto»*.
Mi sono seduta a parlare con lui. Gli ho chiesto: *«E lavorare, hai intenzione di farlo? Come pensate di vivere? Hai deciso di crescere un bambino senza un mestiere, senza responsabilità?»*. Lui è rimasto in silenzio. Guardava il pavimento, si mordeva il labbro, e taceva. E in quel momento ho capito – basta. Avevo cresciuto un uomo che non sarebbe mai diventato adulto. Gli avevo dato tutto, e lui aveva deciso che era il minimo.
La lite è stata tremenda. Gli ho detto tutto quello che pensavo. Non sono obbligata a mantenere la giovane famiglia di mio figlio immaturo. Non devo mantenere quella ragazzina che, a quanto pare, crede che i bambini siano solo scarpine rosa e servizi fotografici. Gli ho dato tutto, ora tocca a lui dare qualcosa al mondo. O almeno a se stesso.
Li ho cacciati entrambi. Sì, anche la ragazza incinta. Perché se sono abbastanza grandi per fare un bambino, lo siano anche per affrontare le conseguenze.
Adesso vivono da mia madre. Lei continua a fare la salvatrice, spendendo la sua pensione, quei pochi spiccioli che ha. Io pago le bollette, le compro le medicine. A mio figlio? Niente. Nemmeno un euro. E va bene così.
Molti dicono: *«Ma come, sei sua madre!»*. E io rispondo: essere madre non significa farsi calpestare. Essere madre significa insegnare. A volte, anche con durezza.
Non mi pento. Perché se non li avessi cacciati, mi sarei ritrovata con due fannulloni al collo e un neonato in più. E io, ditemi un po’, ho anche una vita.
Mio figlio capirà. Forse non subito. Forse quando diventerà padre. O forse mai. Ma la mia coscienza è pulita. Perché ho fatto tutto quello che potevo. E quando qualcuno calpesta il tuo amore con i piedi sporchi, devi sbattergli la porta in faccia. Anche se è tuo figlio.