Ho diritto all’amore

**Ho diritto all’amore**

Perché i miei parenti non mi capiscono? Questo pensiero mi frullava in testa ultimamente, anche se ora mi sentivo davvero felice. Invece di essere contenti per me, tessono intrighi alle mie spalle e raccontano sciocchezze ai conoscenti.

Mi chiamo Laura Bianchi, ho cinquant’anni, una donna ancora in forma, lavoro in un grande ufficio dove sono rispettata. Sono lì da tanto tempo, aiuto i più giovani e, insomma, sono una persona gentile.

La mia vita non è stata sempre rose e fiori. Il mio primo matrimonio con Luca è stato un disastro. Mia madre cercò di dissuadermi fino all’ultimo:

“Figlia mia, ascolta i miei consigli, non sposare Luca. Non diventerà mai un marito affidabile. Guarda suo padre: se ne sta sempre fuori casa, è così da quando era giovane. Viviamo vicini, tutti sanno com’è. A volte spariva per giorni, persino per una settimana. E quando tornava, urlava contro sua moglie davanti a tutto il vicinato, dicendo che lo umiliava cercandolo in giro.”

“Mamma, sono solo pettegolezzi,” rispondevo. “E anche se fosse vero, Luca non è suo padre. Stiamo bene insieme, ci divertiamo.”

“Figlia mia, ti ho avvertita. Non avere fretta di sposarti, c’è tempo.”

“Non c’è tempo,” ribattevo, voltandomi verso la finestra.

“Laura! Non sarai mica…” mia madre alzò le mani al cielo.

“Esatto, mamma. Per questo mi sposo.”

“Mio Dio,” borbottò, “ho notato che mangiavi salatini come una pazza, ma pensavo fosse solo la stagione… Che cosa hai combinato? Sei giovane, e già ti leghi le mani e i piedi da sola!”

“Basta, mamma. Quel che è fatto è fatto. Preparati per il matrimonio,” dissi decisa.

“E dove vivrete?”

“Qui, con te. Hai detto tu stessa che suo padre non è affidabile.”

“Figlia, non mi dispiacerà aiutarti, ma Luca non mi convince.” Si vedeva che non voleva che vivessimo lì.

Il matrimonio fu modesto, entrambe le famiglie vivevano di stipendi e non avevano soldi da sprecare. Diedi alla luce mio figlio Matteo e restai a casa. Luca non andò mai d’accordo con mia madre, e non ci provò neanche. “Perché tua madre non dorme mai?” si lamentava. “È domenica!”

“Perché quando ti svegli corri in cucina affamato, e lei cerca di farci trovare la colazione pronta. Ha pietà di me, Matteo non mi fa dormire.”

“Matteo è capriccioso pure lui. A casa mia mio padre urlava ubriaco, qui tua madre fa rumore all’alba, mio figlio non mi lascia dormire. Che vita è?”

“E cosa ti aspettavi?”

“Volevo un po’ di pace.”

Questi discorsi diventarono frequenti, e poi cominciai a notare che tornava tardi dal lavoro. “Dove vai a quest’ora?” chiedevo.

“Al lavoro, dove vuoi che sia? A volte esco con gli amici.”

Dopo quasi tre anni di matrimonio, scoprii che aveva un’altra donna, più vecchia di lui di nove anni. “Lì è tutto tranquillo,” mi dissero. Non ci pensai due volte: lo cacciai e chiesi il divorzio.

Ci misi tanto a riprendermi dal tradimento.

“Solo tre anni, e già mi tradisce. E poi cosa sarebbe successo?”

“Te l’avevo detto,” sbuffava mia madre.

“Basta, mamma, non serve che mi fai la predica. Ho capito.”

Mia madre mi aiutò con Matteo, lo portava all’asilo, poi a scuola. Io lavoravo. Passarono dieci anni dal divorzio, ma non mi fidavo più degli uomini.

Un giorno, una collega, Sofia, mi invitò al suo compleanno. In pizzeria c’era tanta gente, musica e allegria. Un uomo si avvicinò: “Marco,” disse con un sorriso, chinando leggermente il capo. “Posso invitarti a ballare?”

“Sei una collega di Sofia, giusto? Tra i parenti non ti avevo mai vista.”

“Esatto, siamo amiche.”

Passammo tutta la serata insieme. Marco aveva dodici anni più di me, ma non si era mai sposato. Educato, gentile, colto. Mi accompagnò a casa.

Cominciammo a vederci. Avevo trentasei anni, lui quarantotto. Ci frequentammo a lungo, finché un giorno mi disse: “Laura, sposiamoci. Non ho esperienza, ma prima o poi bisogna cominciare,” sorrise, regalandomi un mazzo di fiori.

Accettai, ma prima lo presentai a mia madre e Matteo.

“Cosa ne pensi?” chiesi a mia madre dopo che se ne fu andato.

“Che dire? Serio, rispettoso. Un po’ più grande di te, ma meglio così. Ha una casa, una macchina. Mi piace.”

Ci sposammo. Era tutto diverso dal mio primo matrimonio. A fatica ricordavo di essere stata sposata prima; solo Matteo me lo ricordava. Tornavo dal lavoro ogni giorno col cuore leggero. Marco lavorava in un’azienda edile.

A quarant’anni scoprii di aspettare un bambino.

“Marco, cosa facciamo? Matteo è già grande.”

“Lo teniamo, no?” rise. “Devo pur lasciare qualcosa di mio nel mondo!”

Nacque un altro figlio, Davide. Marco era il padre più felice del mondo. Lo cullava, lo nutriva, si alzava la notte per non svegliarmi.

Gli anni passarono. Davide cresceva, Matteo finì il liceo. Nonostante la differenza d’età, si volevano bene. Marco lo spinse a frequentare la sua stessa università.

Matteo si sposò e presto ebbi un nipotino. Ma sua moglie, Giulia, mi teneva a distanza. Per quanto ci provassi, non riuscivo a legare con lei.

“Non preoccuparti,” mi diceva Marco. “L’importante è che Matteo sia felice. Hanno la loro casa.”

Cercavo di ascoltarlo, ma mi faceva male. Marco dedicava tanto tempo a Davide, ormai in terza elementare, quando tutto cambiò. Durante una vacanza al mare, una sera svenne. Non chiamammo l’ambulanza, si riprese subito.

“Troppo sole,” disse. “Staremo all’ombra.”

Tornati a casa, riprendemmo il lavoro, ma un altro svenimento lo colse in ufficio. Lo portarono all’ospedale.

“Il dottore vuole degli esami,” mi disse cupo quando andai a trovarlo. “Resterò qui.”

“Va bene, Marco. Fidiamoci del medico. Sapremo come gestirlo.”

Il medico mi chiamò: “Non è semplice. Suo marito ha un tumore al cervello. Inoperabile. Decida se dirlo o meno.”

Mi sembrò di cadere nel vuoto. Perché accade sempre ai migliori?

Le condizioni di Marco peggiorarono. Alla fine glielo dissi, e lui lo sospettava già. Gli ultimi mesi furono duri. Lo seppellii. Mio figlio mi aiutò a riprendermi.

Non credevo di poter amare di nuovo. Marco era stato perfetto. Ma a cinquant’anni incontrai Dario per caso, al parco. Camminavo lentamente, era un pomeriggio tiepido di fine settembre. Distratta, sbattetti contro qualcuno.

“Scusi,” balbettai.

“Nessun problema,” sorrise, un uomo dai capelli grigi. “Anch’io sogno a occhi aperti.”

Parlammo a lungo. Era un architetto comunale. Mi accompagnò a casa.

“Se passi sempre di qui, domani ti aspetto.”

“Volentieri.”

Ci frequentammo per mesi. Aveva cinquantotto anni, rimasto vedovo sei anni prima. Era gentile, mi faceva sentire al sicuro. Mi propose di sposDopo qualche esitazione, accettai, perché il cuore non ha età, e anche a cinquant’anni ho diritto a un nuovo amore.

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