Ho fatto ciò che credevo giusto

“Ho fatto ciò che credevo giusto”

«Pronto, Giusy, non posso parlare a lungo, qui stanno picchiando Luca», queste parole caddero come un fulmine a ciel sereno. Giuseppina si bloccò, stringendo il telefono tra le mani. Il cuore le batteva all’impazzata, l’adrenalina le invadeva il sangue. Non fece nemmeno in tempo a fare una domanda che la chiamata si interruppe. Il marito era uscito la sera con un amico a bere una birra dopo il lavoro. Un venerdì qualunque, piani normali. Ma ora tutto era cambiato.

Giuseppina corse alla porta, afferrò le chiavi e si precipitò in strada. Lungo il percorso chiamò più volte il marito, ma lui non rispose. L’ansia cresceva di minuto in minuto. Alla fine, riuscì a contattare l’amico del marito, che era stato testimone dell’accaduto.
«Ma che diavolo hai fatto, lasciarlo solo?!», urlò Giuseppina nel telefono, trattenendo a stento le lacrime. «Perché non l’hai aiutato?! Perché hai chiamato me e non la polizia?!»

L’amico tentò di giustificarsi, spiegando a voce tremante che si era spaventato e aveva pensato di avvisare lei, perché sapesse cosa stava succedendo. Ma questo non fece che aumentare la rabbia di Giuseppina.
«Tu hai fatto in tempo a metterti in salvo, eh? E mio marito è rimasto lì da solo! Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?!», continuò, senza lasciargli spazio per replicare.

Si precipitò sul posto, sperando di arrivare in tempo. Ma quando giunse lì, non c’era più nessuno. Un’auto della polizia aveva già portato via suo marito, senza che lei sapesse dove. Giuseppina rimase sola in mezzo alla strada, sentendosi completamente impotente.

La mattina dopo si recò alla questura, dove scoprì che il marito era stato arrestato per presunto teppismo. A quanto pare, un passante aveva chiamato la polizia segnalando una rissa. Ma nessuno aveva visto che gli aggressori erano dei bulli, non suo marito e l’amico. Tutto faceva pensare che fossero loro ad aver iniziato la colluttazione.

Giuseppina era furiosa. Cercò di spiegare agli agenti che suo marito era stato aggredito, ma questi si limitarono a scrollare le spalle. L’amico che aveva disperatamente cercato la sera prima, intanto, era già tornato a casa e dormiva beatamente, senza preoccuparsi di quanto accaduto.

Dovette passare l’intera giornata a raccogliere prove e cercare testimoni. Alla fine, un passante confermò di aver visto Luca essere attaccato da più persone. Questo bastò per farlo rilasciare.

Quella sera, Giuseppina finalmente riabbracciò il marito all’uscita della questura. Lui sembrava stanco e distrutto. Lei lo strinse forte, cercando di trasmettergli tutto il suo amore e sostegno. Ma dentro di sé bruciava ancora la rabbia. Non poteva perdonare l’amico per la sua codardia. Luca era fortunato che non ci fossero state conseguenze gravi.

Luca chiamò l’amico:
«Come hai potuto stare a guardare mentre mi picchiavano?»
«Non lo so, Luca», rispose l’altro. «La paura mi ha paralizzato. Volevo aiutarti, ma non ci sono riuscito. Sai che sono sempre stato un codardo. Quando ho visto quei ragazzi aggredirti, il mio primo pensiero è stato mettermi al sicuro. Capisco che sia terribile, ma è la verità. So che è brutto da sentire, ma ho fatto quello che credevo giusto.»
«Capisco», tagliò corto Luca, pensando: «Che bisogno ho di un amico così?»

Più tardi, l’amico provò più volte a spiegargli che la codardia non è una scelta, ma un tratto del carattere. Non ne era fiero, ma non poteva cambiare. Per tutta la vita aveva evitato conflitti, nascosto dai problemi, temuto le decisioni. Quella sera era solo l’ennesima prova della sua debolezza. L’amico era convinto che la loro amicizia non dovesse finire per questo. Bastava un’altra birra al bar per fare la pace.

Ma nessuna scusa servì. Per Luca, quell’uomo non era più un amico.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

fourteen − 5 =

Ho fatto ciò che credevo giusto