Ero stanco morto, tornando a casa in una di quelle sere in cui sembra che tutti i pazienti del nostro ospedale decidano di ammalarsi contemporaneamente. Il tempo nella clinica veterinaria è una cosa strana: prima sembra allungarsi allinfinito, poi scivola via in un attimo. Alle dieci di sera chiudo finalmente la porta del consultorio, sogno un caffè, una coperta e un po di silenzio. Quando scendo sul pianerottolo dellingresso del condominio, un flebile miagolio mi arriva alle orecchie, sottile e insistente come un filo che si perde nel buio. Mi fermo, perché, anche quando cerco di essere solo un uomo con una borsa, il lavoro mi segue come la pelliccia di un gatto.
Il suono si fa più vicino e, poco dopo, lo vedo. Sulla piattaforma di scale, tra il secondo e il terzo piano, sotto una vecchia batteria, è accovacciata una gattina. Piccola, dal pelo biancoargento con una macchia scura sopra locchio destro, quasi un tocco di pennello. Il pelo è aggrovigliato da un lato, gli occhi grandi e belli, ma pieni di stanchezza. Lo sguardo mi dice: Resisto, ma ormai non ho più forze.
Ciao sussurro a me stesso, quasi incredulo. Che fai qui?
Il gatto non scappa, ma nasconde la testa tra le spalle, segno felino di non sono pericolosa. Mi siedo, allungo la mano verso il suolo. Lei annusa lodore di paura, di medicine, di storie altrui appena uscite dalla clinica, e compie un minuscolo passo verso di me. È chiaro: il patto è siglato.
Dal piano di sopra spunta il vicino del sesto, osserva la scena e dice quello che molti avrebbero pensato:
Signora, non la tocchi, potrebbe essere contagiosa. Il sindaco lo saprà, il portiere lo rimprovererà.
Che lo rimproveri rispondo con calma. La prendo comunque, ha freddo.
E se fosse rabbiosa? chiede quasi a bassa voce.
No, è solo esausta rispondo. E questa si cura con il calore.
Il vicino tace. Togliendo la sciarpa la metto sotto la gattina e la sollevo delicatamente. Mi aspettavo resistenza, sibili, ma lei si avvicina, si insinua nella mia giacca e mi sembra di sentire un grazie silenzioso. I gatti non parlano, ma il loro mutismo è più forte di qualsiasi parola.
A casa accendo una lampada notturna soffusa, prendo un asciugamano, dellacqua, una ciotola e una lettiera di riserva. Metto una scatola in un angolo, come rifugio provvisorio. La piccola esce cauta, si guarda intorno e inizia a leccarsi, nervosa ma comunque. È sempre un buon segno: sta tornando a sé.
Facciamo conoscenza dico. Io sono Marco, e tu chi sei?
Si avvicina allacqua, beve con calma, senza avidità. Io mi siedo accanto e osservo in silenzio, come fa ogni veterinario per cinque minuti. In quel tempo si capisce tanto. Non ha il collare, le orecchie sono pulite, il pelo sul fianco è arricciato, sulla zampa una piccola graffiatura. Niente di critico: tutto si aggiusta con calore, una spazzola e tempo.
Apro il sacchetto di cibo per ogni evenienza, quello che spesso rimprovero a me stesso, e lo offro. Mangia con delicatezza, poi si siede di nuovo, guardandomi come a chiedere se può restare.
Puoi restare, almeno per stanotte dico. Il posto è qui.
Si avvicina, tocca il mio palmo con la fronte. In quel momento la quiete promessa si fa realtà, ma con un leggero ronzio felino. Stendo una coperta, pongo lasciugamano accanto. La gattina si posiziona al confine, non al centro, gli occhi semichiusi, come se tenesse ancora il controllo. Mi sdraio accanto a lei e provo una strana serenità: i gatti sanno mettere ordine anche nella mente.
Durante la notte mi sveglio un paio di volte. Una volta mi miagola per verificare, la accarezzo e mi ronfa di nuovo. Unaltra volta ricevo un messaggio nel gruppo del condominio: Chi ha portato questo gatto? Sistemiamo la cosa. Sorrido, sì, sistemiamo, ma prima lo riscaldiamo.
Al mattino scatto una foto e pubblico un annuncio: Trovata gatta, biancogrigio, macchia sopra locchio. Dolce. Cerco proprietario. Lo attacco al portone, lo invio nei gruppi. In clinica controllano il microchip, niente. Non sorprende.
La tieni? chiede lamministratrice.
Prima cercheremo il proprietario rispondo. Se non lo troviamo, la terremo.
Lei sorride come se già sapesse la risposta.
Nel pomeriggio suona il telefono.
Buongiorno una gatta con una macchia sopra locchio? Sembra una macchia di fango? voce femminile timida.
Sì, la conosci?
Credo di sì. Nel nostro condominio viveva una signora, Ginevra Rossi. È in ospedale. Aveva una gatta, Fiorella. A volte le davamo da mangiare, ma non la lasciavamo entrare. Pensavamo fosse andata via con Ginevra, poi lhanno portata via in ambulanza. Da allora la gatta cerca la porta.
Venite, per favore dico. Guardate di persona.
Ventanni dopo, alla porta cè una donna di circa quarantanni e una bambina di sette, nascosta dietro la madre. La gatta corre dalla cucina, si ferma, fissa la porta con lo sguardo interrogativo. La donna si siede.
Fiorella? sussurra. Fiore, sei tu?
La gatta fa due passi veloci e si accosta, appoggia la fronte sulla mano della donna. È tutto chiaro, senza parole. La bambina strilla di gioia, poi si siede cauta, con quel rispetto infantile verso gli esseri viventi che gli adulti spesso dimenticano.
Pensavamo fosse già stata presa afferma la donna, un po affrettata. Ginevra è in ospedale, noi lavremmo nutrito, ma è sparita due giorni fa. Non la lasciavano più entrare. Si ferma, sorride stancata. Sei tu, Marco, il veterinario della clinica? Ti ho vista nei gruppi. Grazie di cuore.
Come sta Ginevra? chiedo dolcemente.
La storia è al contempo semplice e amara. Ginevra Rossi la nonna del terzo piano, come la chiamava la bambina, senza legami di sangue viveva sola con la sua gatta, non gravemente malata, ma una sera il cuore le ha abbandonato. I vicini hanno chiamato lambulanza, lhanno portata via. I parenti ci sono, ma lontani, e lamministratore ha promesso di risolvere, ma la porta resta chiusa e il gatto rimane sotto la batteria in attesa.
Possiamo prenderla noi? dice la donna. Ma abbiamo un pappagallo, temo non vadano daccordo. E lavoro fino a tardi, la figlia è allasilo. Vorremmo almeno ospitarla temporaneamente.
Facciamo così propongo. Stasera la gatta resta da me. Domani vado allospedale a parlare con Ginevra, vediamo se cè chi può occuparsene. Se non cè, penseremo insieme al futuro. Posso aiutarvi a introdurre gli animali a piccoli passi, con il profumo.
La bambina ascolta attentamente, annuisce e poi chiede:
Posso comprare una ciotola per lei? Ce ne sono in negozio, vicino al pane.
Certo sorrido. E prendi una copertina, i gatti la adorano.
Quando se ne vanno, gli occhi della gatta sembrano più sereni. Rimango con la ciotola, mi siedo sul pavimento e la gatta stende la zampa sul mio ginocchio, come a dire non lasciarmi sola. È allora che sento accendersi dentro di me il motore che mi spinge a sopportare le chiamate notturne e i turni senza sonno. A volte sembra di salvare qualcuno, ma è laltro a salvare noi.
Il giorno dopo, tra una visita e laltra, passo dalla cardiologia: un piccolo mazzo di fiori, un sacchetto di cibo e la richiesta di farla entrare per un minuto. Ginevra è una donna esile, con uno sguardo gentile e affaticato.
Riguardo alla sua gatta dico. I suoi occhi si sono illuminati.
Fiorella la mia piccola Grazie! Temevo che si fosse congelata sussurra. Chiudevo la porta per non farla scappare, e poi è peggiorato non ho potuto farci nulla.
Va tutto bene rispondo. È al caldo, mangia, riposa. La vicina è pronta a prenderla per il tempo necessario. Ti aiuterò.
La prenderà? Ginevra annuisce, le mani tremano. Solo se non la porta fuori. È una gatta di casa. Poi aggiunge timidamente: Non sei arrabbiata perché non ce lho fatta? Ho provato.
Le lacrime quasi mi sfuggono.
Non mi arrabbio mai con chi cerca di fare del suo meglio dico. Ti scriverò come sta. Quando starai meglio, decideremo insieme.
La sera, con la vicina e la bambina, portiamo la lettiera e una nuova ciotola rosa a cuoricini. La gatta guarda nervosamente il nuovo ambiente, il pappagallo chiacchiera, ma io stendo la coperta su cui dormiva da me e lei si sdraia subito. La bambina si siede sul tappeto con un topo di peluche. La gatta non gioca, ma osserva. Poi chiude lentamente gli occhi. È il più grande segno di fiducia.
Ci occuperemo di lei dice seriamente la bambina. Cambierò lacqua al mattino, non la disturberò, e il pappagallo lo metterò in unaltra stanza.
È un accordo sorrido.
Al piano di sopra mi incontra il vicino del sesto, si stringe la mano, tossisce e, goffamente, dice:
Grazie a te. Hai fatto bene.
Grazie a voi rispondo. Per non aver ostacolato.
Una settimana dopo, Ginevra invia un messaggio vocale: Dite a Fiorella che verrò presto. Grazie Qualche giorno dopo la dimettono. Ci incontriamo davanti alla porta della vicina, e la gatta corre verso la padrona come se non fossero passate settimane, si appoggia alla sua fronte e resta lì. Il mondo torna al suo posto.
Finché Ginevra si riprenderà, Fiorella resterà da noi dice la vicina. Poi tornerà. Noi e la bambina stiamo imparando a prenderci cura.
Sono nella cucina di un appartamento che profuma di patate e mele, e penso che è per storie come questa che amo la mia professione più di tutte le scaffalature di farmaci. Una gatta sul pianerottolo può trasformare sconosciuti in veri vicini.
Tardi nella notte torno a casa. Sul tavolo cè ancora la ciotola da quella prima notte. Non la ho rimosso, la lascio lì, non come ricordo ma come promemoria: sentire un richiamo sottile al pianerottolo e porgere una mano è il gesto più importante.
I gatti arrivano spesso per caso: si perdono, sbagliano porta, entrano nelle nostre vite. E scopriamo che ciò che ci mancava è la capacità di fermarci, scaldare, attendere. Sono un veterinario, so diagnosticare. Ma a volte basta prendere in braccio una vita altrui e portarla dal freddo delle scale al calore di una casa.
E questo è il lavoro più bello del mondo.






