PRESE IN PRESTITO UN VESTITO DA SPOSA… E TROAI UN BIGLIETTO NEL CAPPELLO
Il giorno in cui provai quel vestito da sposa, giuro che avvertii una strana sensazione.
Nessuna paura.
Non era bellezza.
Solo… un peso.
Lo sottovalutai. Dopo tutto era stato preso in prestito da una boutique vintage del centro di Bologna. La proprietaria, la signora Vitale, mi assicurò che era stato indossato una sola volta, venti anni fa. Pulito, conservato, intatto.
Non mi importava. Ero felice di potermi permettere, finalmente, qualcosa che sembrava così prezioso.
Lo portai a casa, lo appesi con cura e, ogni sera prima del matrimonio, lo fissavo. Sognavo il grande giorno: il corridoio, la musica, l’uomo.
Lui, Luca Bianchi, era il mio futuro sposo. Lo amavo profondamente, ingenuamente, giovanilmente.
La notte prima delle nozze, mentre vaporizzavo il vestito per eliminare le pieghe, sentii uno strappo. Vicino all’orlo interno, nel fodero, c’era una cucitura strana, un rigonfiamento piatto.
Curiosa, afferrai un ago, aprii delicatamente e trovai una nota. Antica, senza colore, ma ancora leggibile.
«Se leggi queste parole, ti prego, non sposarti con lui. È pericoloso. Sono fuggita a causa dei gol. — M.»
Il vestito scivolò dalle mani, il mio cuore accelerò. Girasai la nota e lessi un’altra frase:
«SE TI HANNO DATO QUESTO VESTITO È PERCHÉ LO HANNO GIÀ FATTO PRIMA.»
Non l’avevo comprato in una boutique? O forse lui mi aveva suggerito il luogo?
La memoria si fece confusa, tutto divenne sfocato. Cercai l’indirizzo online, ma la boutique non aveva sito. Quando controllai la mappa, l’indirizzo non compariva. Decisi di andare di persona, ma arrivata lì trovo il negozio chiuso, finestre vuote, polvere, nessuna traccia della signora Vitale.
Bussiò il vicino di casa, un giovane dagli occhi assonnati, Gianni Rossi.
«Buongiorno, scusi il disturbo. Conosce la boutique che era qui?»
«Boutique?», rispose. «Una sartoria per spose vintage, gestita da una signora…»
Scosse la testa. «Quella bottega è chiusa da quasi vent’anni.»
Rimasi senza parole.
«Ma… ho preso un vestito lì pochi giorni fa», insistetti.
Gianni mi scrutò dall’alto in basso e sussurrò: «Sei la terza donna che me lo chiede in cinque anni.»
Il sangue mi gelò.
«Che ne è stato delle altre?»
«Una ha annullato il matrimonio e sparì. L’altra è andata avanti. L’ultima è svanita durante la luna di miele.»
Ritornai in auto, feci una pausa di venti minuti, poi chiamai Luca. Non menzionai la nota, né il negozio, né il vicino. Gli chiesi semplicemente: «Dove eri prima di incontrarmi?»
Lui esitò, poi rispose: «Perché me lo chiedi adesso?»
Capii che quella nota non era casuale. Il vestito non era un caso.
Il giorno dopo, svegliai nel silenzio, ma non quello pacifico: un silenzio strano, come se qualcosa trattenesse il respiro. Il mio cuore batteva forte per un sogno vuoto, una sensazione fredda e macchiata. La nota era ancora sul comodino, schiacciata, stropicciata.
«SE TI HANNO DATO QUESTO VESTITO È PERCHÉ LO HANNO GIÀ FATTO PRIMA».
La tenevo come fosse di cristallo, senza voler credere che Luca potesse nascondere segreti così profondi da avvelenare la seta.
Il vestito era tornato nella sua scatola di avorio, vintage, ricamato a mano, ancora profumato di lavanda e… qualcosa di ossidato, forse il profumo di un vecchio ricordo.
Decisi di nuovo di andare in cerca di risposte. Indossai il pigiama, mi pettinai i capelli in una coda, e mi misi in viaggio verso la zona dove avevo visto la boutique. Era una piccola bottega incastonata tra un parrucchiere e una libreria dell’usato, chiamata “Seconda Opportunità”.
Spinsi la porta. Non c’era campanello, né vetrina, né vestiti, né appesi, né banco. Solo una stanza vuota, piastrelle impolverate, uno specchio incrinato appoggiato al muro di fondo. Era come se fosse rimasta così per anni.
Uscendo, un uomo che spazzava il marciapiede mi guardò.
«Cerca qualcosa?» chiese.
«La boutique di abiti. Era qui due giorni fa.»
Lui aggrottò le sopracciglia. «Quell’attività è chiusa dal 2019.»
Ingoiai. «Ne sei sicura?»
«Vivo sopra, non l’ho mai vista aperta.»
Il respiro mi mancava. Tornai alla macchina con le mani tremanti.
Se la bottega non esisteva… dove avevo trovato il vestito? E chi aveva infilato quella nota?
Andai dalla zia, Lucia, una donna tranquilla che aveva visto troppe cose nella vita per spaventarsi. Le mostrò la nota, il vestito, e mi raccontò di una donna di nome Marianna, che, tanti anni fa, aveva usato un vestito di seconda mano per il suo matrimonio, proveniente da una “bottega che non era davvero una bottega”. Marianna, mi disse, si era sposata con l’uomo sbagliato, e il vestito aveva cercato di avvertirla.
«Stai dicendo che il vestito è… maledetto?», chiesi.
La zia non rispose, ma mi fece andare a casa, bruciare la nota e dimenticare il vestito. Non lo feci. Quella notte, quando aprii di nuovo la scatola, trovo un altro biglietto, più piccolo, con cinque parole:
«Ti rimangono sette giorni.»
Il cuore si fermò. Non ero ancora sposata.
Il giorno successivo, mentre la notte la notte, il vestito fu nuovamente aprto e trovai una foto sbiadita: la donna della boutique, più giovane, in piedi accanto a un’altra donna che indossava lo stesso abito, con la scritta sul retro: «Anche lei lo usò. 1997».
Una ricerca inversa dell’immagine non diede risultati, ma il viso della seconda donna mi sembrava familiare. Lo riconobbi nella sezione obituari di un archivio: era morta nel 1997 in circostanze “inesplicabili”.
Tornai a casa di Luca con il vestito ancora nella scatola, il piccolo sacchetto di velluto nero nel mio zaino, e gli mostrò l’anello di argento con le iniziali DO incise al suo interno.
Luca rimase senza parole.
«L’hai trovato, vero?», chiesi.
Lui scosse la testa. «Non l’ho mai avuto. L’ho preso in prestito, non so da dove venga.»
Ma le sue parole non suonavano sincere.
Rimasi nel suo appartamento, e mentre li guardavo, il suo telefono vibrò con un messaggio anonimo: «Non lasciarti mettere quell’anello».
Il messaggio mi colpì come un pugno. Lo mostrai a Zaira, un’amica che lavorava come restauratrice di tessuti. Zaira esaminò il vestito e disse: «È cucito a mano, probabilmente degli anni ’80. Ma il fodero è stato modificato più tardi, una cucitura più grossolana.»
Con la sua help, aprii la cucitura e trovai un piccolo sacchetto di velluto colmo di un anello. Le iniziali corrispondevano a Luca Bianchi.
Luca, sconvolto, mi chiamò.
«Devo spiegarti, ma non ora. Aspetta, ti prego, aspetta», disse, ma io avevo già deciso di non tornare più al suo fianco.
Il giorno del matrimonio, scelsi un completo di raso avorio, senza pizzo, lasciando il vestito maledetto a casa. Quando entrai nella chiesa di San Francesco a Bologna, la pioggia batteva forte, come se il cielo volesse avvertirmi.
Adriano, il fratello di Luca, era al podio. Prima di iniziare la cerimonia, prese la parola:
«Prima di proseguire, devo condividere qualcosa con tutti voi.»
Un mormorio attraversò la navata. Adriano aprì la sua borsa, estrasse la nota di Marianna, ora invecchiata, e la lesse ad alta voce.
«Se leggi queste parole, è perché qualcun altro sta per camminare verso l’altare con lui. Fuggite prima che sia troppo tardi…»
Il silenzio divenne opprimente. Un detective in pensione, presente al matrimonio, si alzò e, ricordando il caso di Marianna, fece un segnale alla polizia. Pochi minuti dopo, gli agenti irruppero nella chiesa e arrestarono Adriano.
La pioggia cessò proprio quando gli uomini in divisa lo portavano via.
Settimane dopo, tornai alla boutique dove tutto era iniziato. La signora Vitale, ormai anziana, mi abbracciò in silenzio. Mentre uscii, il sole filtrò tra le nuvole per la prima volta. Respirai profondamente.
Era libera.
La lezione che ho imparato è che a volte la cautela è il vestito più sicuro che possiamo indossare: ascoltare il sussurro del passato può salvarci dal futuro che temiamo.