Ho proposto di dividere i ripiani del frigorifero: è scoppiato un putiferio!

Quattro anni. È da così tanto che io, mio marito e la nostra bambina di due anni viviamo sotto lo stesso tetto con sua madre, Rosalba Rossi. In un vecchio trilocale alla periferia di Firenze. Viviamo così perché non possiamo permetterci un’altra casa. Mio marito fa il meccanico, io lavoro come bibliotecaria in una scuola locale. Gli stipendi bastano appena per i pannolini, il pane e le bollette. Anche se trovassi un secondo lavoro, non ci basterebbe per affittare un appartamento. Perciò resistiamo. Ogni giorno.

Cercavo di essere grata. Dopotutto, Rosalba non è un’estranea. E anche se ha un carattere difficile, è la nonna della mia bambina. In più ci aiuta – a volte tiene la piccola mentre vado in farmacia o dal dottore. Ma col passare del tempo, tutto diventa più difficile. È come camminare su un campo minato. Un passo falso, ed esplode. All’inizio erano piccole cose: non avevo lavato il piatto subito dopo cena, non avevo pulito il piano cottura. Poi sono arrivate le critiche: «Hai lasciato la pasta a marcire di nuovo», «Perché hai mangiato il mio yogurt?» – quando non l’avevo nemmeno aperto.

Sopportavo. Davvero. Ma una volta, quando mi ha accusata di aver fatto sparire la sua minestra di pollo, non ce l’ho fatta più. Ho proposto di dividere il frigorifero. Onestamente e con buone intenzioni: lo scaffale in alto per lei, quello centrale per noi. Lei cucina per sé, noi per noi. Niente più rimproveri. Ognuno avrebbe avuto il suo.

Rosalba è rimasta immobile, poi è esplosa:

«Ma che ti salta in mente?! Neanche quando vivevo in un collegio universitario con sei ragazze in una stanza si divideva il frigorifero! Tutto era comune. E voi che siete, famiglia o coinquilini?! Vuoi che io prepari la minestra e voi mi dici: “No, grazie, abbiamo il nostro”? Come spieghi a una bambina di due anni che la banana sullo scaffale in basso è della nonna e non può toccarla?! Ma che assurdità! Non nella mia casa!»

Ed è vero – è casa sua. Non ci lascia mai dimenticarlo. Se osiamo fare qualcosa – persino appendere un asciugamano nuovo o spostare una tazza – lei subito ricorda: «Questa è la mia casa. E si fa come dico io». Non lascia spazio a dubbi. Parla chiaro.

D’altra parte, lei sa dove comprare la carne più economica, in quale negozio il formaggio è in offerta, e dove trovare le verdure scontate. Corre da un mercato all’altro con gli orari in testa e porta a casa sacchetti di cibo spendendo pochi euro. A volte la invidio – io non ho tempo né forza per queste maratone. Compro quello che trovo vicino a casa. E sì, costa di più. Lei invece è come un cecchino: punta, aspetta, e colpisce. Ma poi tutto diventa motivo di lamentele. «Io mi sforzo, perdo tempo, e voi fate solo critiche!»

Ho provato a parlarne con mio marito. Gli ho detto: affittiamo anche un monolocale, anche fuori città. Basta vivere da soli. Ma lui non vuole. «Non ce la facciamo. Mamma non ce la farebbe da sola. Si offenderebbe…» – e così ogni volta. Lui ha paura di offenderla, io invece ogni giorno mi sento offesa. Solo a me nessuno pensa.

Rosalba dice che le cene insieme rafforzano la famiglia. Ma da noi finiscono sempre con urla, porte sbattute e silenzio per una settimana. A volte sogno solo di sedermi a tavola e mangiare in pace. Senza paura che qualcuno dica: «Perché l’avete mangiato questo? Lo avevo lasciato per domani!» Oppure: «Di nuovo non hai pulito il tavolo!»

Sono stanca. Ma non c’è via d’uscita. Siamo bloccati tra generazioni, tra povertà e la necessità di sopportare. Vorrei andarmene. Vivere, non sopravvivere. Ma per ora non resta che aspettare. Aspettare che la bambina cresca, che mio marito trovi coraggio, che mettiamo da parte abbastanza per un affitto…

E ogni volta che apro il frigorifero, non sento solo lo scricchiolio dello sportello. Sento un urlo: «Qui comando io!»

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