Avevo solo dieci anni quando per la prima volta ho compreso veramente cosa significasse essere adulta. E questa consapevolezza non arrivò da una tranquilla conversazione in famiglia, né da una lezione a scuola e neanche leggendo un libro. Arrivò attraverso la paura, il dolore e l’angoscia per il pensiero di poter perdere mia sorella. La mia Carlotta.
Tutto iniziò, come per molti fratelli maggiori, con un senso di ingiustizia. Penso che molte ragazze, che devono prendersi cura dei fratellini o delle sorelline, mi capiranno. Comandi continui, rimproveri: “Sei più grande, devi farlo tu”, “Io e papà dobbiamo uscire, guarda tu Carlotta”. Sembrava che mi usassero come una babysitter gratuita, privandomi della mia infanzia, dei giochi, della libertà.
Carlotta aveva cinque anni allora. Era sempre in movimento, sempre a chiedere qualcosa, sempre a seguirmi ovunque. Io sognavo almeno una serata da passare con le mie amiche. Avevamo deciso di vedere un film, portato popcorn e succhi, creando un’atmosfera accogliente come al cinema. E ovviamente, mi scordai completamente che dovevo badare a mia sorella.
Non era passato più di mezz’ora quando udii un tonfo sordo dalla stanza accanto. Balzai in piedi, col cuore in gola. Entrando nella stanza, vidi un armadio rovesciato. Carlotta era lì accanto, singhiozzando e tenendosi il piede. Più tardi si scoprì che era solo una grave distorsione, un livido, per fortuna niente fratture. Si era arrampicata sull’armadio per prendere un libro dallo scaffale più alto.
Quella sera i miei genitori mi fecero una sfuriata. Lacrime, urla, rimproveri: “Non hai badato a lei!”, “Poteva morire!”. E io stringevo i pugni, odiando tutte quelle parole. Avrei voluto gridare: “Non ho chiesto di avere una sorella! Non ho chiesto di essere la maggiore!”.
Ma tutto cambiò qualche mese dopo.
Arrivò l’estate e i familiari ci invitarono per una vacanza fuori dall’Italia. Partimmo con la nostra famiglia per la Sicilia – era come un sogno per noi. Il caldo, l’esotico, il Mediterraneo, piante strane – assorbivo tutto con entusiasmo. Persino con Carlotta sembrava che ci capissimo un po’ meglio.
Una sera passeggiavamo nei pressi dell’albergo. Tutto era tranquillo, silenzioso. Carlotta camminava davanti e accarezzava dolcemente i cespugli, come amava fare nel parco vicino casa nostra. E all’improvviso, un urlo. Acuto, penetrante. Mi voltai e vidi un serpente. Piccolo, nero e rosso, scomparve velocemente tra l’erba. Carlotta rimase immobile e dopo pochi secondi cominciò a vacillare.
Sulla sua gamba c’erano due piccoli ma profondi fori. Un morso.
Il personale dell’hotel accorse subito. I nostri genitori arrivarono in un minuto. Mia madre piangeva, mio padre impallidiva a vista d’occhio. Arrivò un medico, pulì la ferita, le mise un laccio emostatico, tentò di aspirare il veleno. Ma disse subito: “È pericoloso. Molto pericoloso. Il morso è velenoso. Bisogna portarla urgentemente in ospedale e darle l’antidoto”.
Carlotta fu portata via in ambulanza. Io stavo seduta, abbracciandomi le spalle, senza sentire né mani né piedi. Sono stata sopraffatta dalla paura.
In ospedale, i dottori spiegarono che era necessario un trattamento con siero e un’urgenza di trasfusione di sangue. Ma mia sorella aveva un gruppo raro: AB+. Era difficile trovare donatori. I nostri genitori non potevano farlo, poiché avevano recentemente avuto l’influenza. Il medico serrò le labbra e disse: “Resta solo lei. Ma la ragazza ha dieci anni…”.
Non gli lasciai finire. Mi alzai e dissi:
– Sono pronta.
Non sapevo come si sarebbe svolta la procedura, avevo paura. Ma non ero più quella ragazzina che si arrabbiava perché doveva fare da tata alla sorella. Capivo che se fosse successo qualcosa a Carlotta, non me lo sarei mai perdonata.
In quel momento sono diventata adulta. Nonostante i miei anni.
La procedura è stata veloce. Le infermiere mi tranquillizzavano, mia madre mi teneva la mano, mio padre mi accarezzava la testa. Mi sembrava che il mondo si fosse ristretto a un unico desiderio: salvare Carlotta.
Dopo due giorni si sentiva meglio. Le guance riprendevano colore, gli occhi iniziavano a brillare. I medici dicevano: “Avete una ragazza forte”. E io pensavo: “No, forte non è lei. Forte sono diventata io”.
Abbiamo passato il resto della vacanza in ospedale. Non importa. L’importante era che lei fosse viva.
Da allora sono passati molti anni. Siamo cresciute, io e Carlotta. Ma quei giorni sono rimasti impressi nella mia memoria per sempre. Fu allora che capii: una sorella non è un peso, non è un ostacolo. È una parte di te. È il tuo sangue, la tua anima. E per lei sei pronto a fare qualsiasi cosa.
Ora non siamo solo sorelle. Siamo le migliori amiche. Insegniamo ai nostri figli ciò che abbiamo compreso da sole: non bisogna aspettare una disgrazia per capire chi ti è caro. Non bisogna rimandare abbracci, parole gentili, sostegno.
Ma, ahimè, la vita è strutturata in modo che apprezziamo i veri valori solo passando attraverso il dolore. L’importante è non dimenticare la lezione. L’importante è mantenere l’amore. E stare vicini. Sempre.