— Ho trovato due bambini nel mio giardino, li ho cresciuti come miei, ma dopo quindici anni, alcune persone hanno deciso di portarli via da me.

Ho trovato due piccoli bimbi nel mio orto, li ho cresciuti come propri, ma dopo quindici anni qualcuno ha deciso di portarceli via.

«Luca, vieni subito!» urlò dal giardino, e io gettai limpasto mezzomisto direttamente nel lievito madre.

Uscii di corsa sul portico: mio marito stava accanto al vecchio melo, e al suo fianco due bambini, un maschietto e una femminuccia. Erano rannicchiati tra le file di carote, sporchi, con i vestiti strappati e gli occhi grandi e spaventati.

«Da dove vengono?» sussurrai avvicinandomi.

La bambina allungò le mani verso di me. Il ragazzo si avvicinò, ma non mostrava timore. Sembravano di due anni, forse un po più grandi.

«Non lo so neanche io», grattò la testa Luca. «Stavo annaffiando i cavoli e li ho trovati lì, come se fossero germogliati dal terreno».

Mi inginocchiai. La bambina mi avvolse il collo, appoggiando la guancia sulla spalla. Profumava di terra e di qualcosa di acidulo. Il ragazzo restava immobile, ma non distolse lo sguardo da me.

«Come vi chiamate?» chiesi piano.

Non risposero. Solo la piccola mi strinse più forte e iniziò a singhiozzare.

«Dobbiamo avvisare il consiglio del paese», disse Luca. «O il poliziotto del borgo».

«Aspetta», dissi accarezzandole i capelli in disordine. «Prima di tutto li nutriamo. Guardate che magri sono».

Condussi la bambina dentro; il ragazzo la seguì cautamente, tenendosi al bordo del mio mantello. In cucina li sedetti al tavolo, versai del latte e tagliai del pane con il burro. I due mangiarono avidamente, come se non avessero mangiato da giorni.

«Forse sono scappati dei zingari?», ipotizzò Luca, osservandoli.

«No, non credo», dissi scuotendo la testa. «I figli dei zingari hanno la pelle più scura. Questi due hanno gli occhi chiari e i capelli biondi».

Dopo il pasto i bimbi si sentirono più vivaci. Il maschietto sorrise quando gli diedi un altro pezzo di pane. La bambina si arrampicò sul mio grembo e, stringendo il mio maglione, si addormentò.

Verso sera arrivò il commissario Bianchi. Esaminò i bambini e annotò qualcosa sul suo taccuino.

«Li spargeremo nei paesi vicini», promise. «Forse qualcuno li ha persi. Per ora restano con voi; il centro di accoglienza del distretto è pieno».

«Non ci importa», risposi subito, stringendo la piccola addormentata.

Luca annuì. Eravamo sposati da un anno, ma non avevamo ancora figli. E ora ne avevamo due in una volta.

Quella notte li sistemammo nella nostra camera, sul pavimento accanto al fuoco. Il ragazzino faticava a prendere sonno, osservandomi attentamente. Allungai la mano; lui timidamente afferrò il mio dito.

«Non aver paura», sussurrai. «Non sei più solo».

Al mattino una carezza leggera mi svegliò. Aprii gli occhi: la bambina era accanto a me, accarezzandomi la guancia.

«Mamma» balbettò incerta.

Il mio cuore si bloccò. La sollevai e la strinsi al petto.

«Sì, tesoro. Mamma».

Quindici anni passarono in un lampo. La chiamammo Cinzia; crebbe una bellezza slanciata, capelli doro e occhi azzurri come il cielo di primavera. Michele divenne un giovane robusto, proprio come suo padre.

Aiutarono in fattoria, andarono a scuola, divennero tutto per noi.

«Mamma, voglio andare alluniversità di Bologna», dichiarò Cinzia a cena. «Diventare pediatra».

«E io voglio studiare allAccademia Agraria di Firenze», aggiunse Michele. «Papà, è ora di far crescere la fattoria».

Luca sorrise e accarezzò la spalla del figlio. Non avevamo figli biologici, ma non ci eravamo mai pentiti: quei due erano davvero i nostri.

Allora il commissario Bianchi non trovò nessuno. Formalizzammo la tutela, poi ladozione. I bambini sapevano sempre la verità, non nascondemmo nulla. Per loro eravamo mamma e papà davvero.

«Ti ricordi quando ho preparato le focacce per la prima volta?», rise Cinzia. «Ho fatto cadere limpasto a terra».

«E tu, Michele, avevi paura di mungere le vacche», scherzò Luca. «Dicevi che ti avrebbero mangiato».

Ci scambiammo risate, ricordi di prime giornate di scuola, di litigi con i bulli che li chiamavano orfani. E del colloquio col preside che mise fine a tutto.

Dopo che i bimbi andarono a letto, Luca ed io ci sedemmo sul portico.

«Sono cresciuti bene», disse, avvolgendomi.

«Miei», risposi.

Il giorno dopo tutto cambiò. Una macchina straniera si fermò al cancello. Ne scesero un uomo e una donna di circa quarantacinque anni, vestiti eleganti e daspetto formale.

«Buongiorno», sorrise la donna, ma gli occhi erano gelidi. «Cerchiamo i nostri figli. Quindici anni fa sono scomparsi. Una coppia di gemelli, una femmina e un maschietto».

Fu come una doccia di ghiaccio. Luca si mise subito accanto a me.

«E cosa vi porta qui?», chiese con calma.

«Ci hanno detto che li avete tenuti», tirò fuori una cartellina di documenti luomo. «Ecco i certificati. Questi sono i nostri bambini».

Guardai le date: corrispondevano. Ma il cuore non voleva crederci.

«Siete rimasti in silenzio per quindici anni», dissi a bassa voce. «Dove eravate?».

«Abbiamo cercato, ovviamente!», sospirò la donna. «Era un periodo difficile. I bambini erano con una bambinaia, che poi è morta in un incidente I bimbi sono spariti. Solo ora abbiamo trovato una pista».

In quel momento Cinzia e Michele uscirono di casa. Vedendo gli sconosciuti si fermarono, guardandoci con occhi pieni di domande.

«Mamma, che succede?», prese la mano di Cinzia.

La donna si coprì la bocca con la mano, sconvolta.

«Cinzia! Sei tu! E tu sei Michele!».

I ragazzi si scambiarono sguardi, senza capire nulla.

«Siamo i vostri genitori», sbottò luomo. «Siamo tornati a casa».

«Casa?», tremò la voce di Cinzia, stringendo più forte la mia mano. «Siamo già a casa».

«Dai, su, venite», intervenne la donna. «Siamo la vostra famiglia di sangue. Abbiamo una casa vicino a Roma e possiamo aiutarvi in fattoria. La famiglia è sempre meglio di estranei».

Mi montò una rabbia dentro.

«Non avete cercato i vostri figli per quindici anni, e ora, quando sono adulti e possono lavorare, vi presentate?».

«Abbiamo sporto denuncia!», iniziò luomo.

«Mostrami», richiuse Luca la mano. Luomo tirò fuori un certificato, ma Luca notò la data: un mese fa.

«È falsificato», disse. «Dove è loriginale?».

Luomo esitò, rimise i fogli via.

«Non li avete cercati», intervenne Michele, irritato. «Il commissario Bianchi ha controllato: non cerano segnalazioni».

«Stai zitto, ragazzino!», sbottò luomo. «Preparatevi, vi portiamo via!».

«Non andiamo da nessuna parte», dichiarò Cinzia al mio fianco. «Questi sono i nostri genitori, i veri».

La donna tirò fuori il cellulare.

«Chiamo subito la polizia. Abbiamo documenti, il sangue è più spesso della carta».

«Chiamateli», annuì Luca. «E non dimenticate di convocare il commissario Bianchi, ha conservato tutti i registri per quindici anni».

Unora dopo il nostro orto era pieno di gente: il commissario, linvestigatore di distretto, il capo del consiglio del paese. Cinzia e Michele rimanevano in casa, io li tenevo stretti.

«Non vi cederemo», sussurrai, stringendo i bambini. «A nessuno, non importa cosa. Non temete».

«Non abbiamo paura, mamma», rispose Michele, serrando i pugni. «Che provino.».

Luca entrò nella stanza, volto serio.

«Falso», disse conciso. «I documenti sono contraffatti. Linvestigatore ha subito notato le incongruenze: le date non quadrano. Quando i bambini sono arrivati da noi, quei genitori erano a Napoli biglietti e foto lo dimostrano».

«Perché lavrebbero fatto?», chiese Cinzia.

«Il commissario Bianchi ha scoperto tutto. La loro fattoria era in rosso, i lavoratori erano andati via per mancanza di soldi. Hanno cercato manodopera gratis, hanno sentito parlare di voi e hanno falsificato tutto».

Uscimmo in cortile; luomo era già sul carro della polizia. La donna gridava chiedendo avvocato, un processo.

«Sono i nostri figli! Li tenete!».

Cinzia si avvicinò, guardandola dritto negli occhi:

«Ho trovato i miei genitori quindici anni fa. Ci hanno allevato, amato, non ci hanno mai abbandonati. Voi siete estranei che volevano sfruttarci».

La donna indietreggiò, spaventata.

Quando le auto se ne andarono, rimasi solo con la mia famiglia. I vicini si disperdevano, sussurrando.

«Mamma, papà grazie per non averli ceduti», abbracciò Michele.

«Stupido ragazzo», gli accarezzai i capelli. «Come avremmo potuto? Siete i nostri figli».

Cinzia sorrise tra le lacrime:

«Pensavo spesso: e se trovassi i miei veri genitori? Ora lo so. Non sarebbe cambiato nulla. I miei veri genitori siete qui».

Quella sera ci riunimmo attorno al tavolo, come quindici anni prima, solo che ora i bimbi erano adulti. Lamore rimaneva lo stesso: caldo, vivo, familiare.

«Mamma, raccontaci ancora come ci hai trovati», chiese Cinza.

Sorrisi e ricominciai la storia dei due piccoli nellorto, di come entrarono nella nostra casa e nei nostri cuori, di come divenimmo una famiglia.

«Nonna, guarda cosa ho disegnato!», mostrò il piccolo Vanni, tre anni, un foglio pieno di colori.

«Che bello!», presi il nipote. «È casa nostra?».

«Sì! Ecco nonno, mamma, papà, zia Livia e zio Roberto!».

Cinzia uscì dalla cucina, ora dottoressa dellospedale distrettuale, con la pancia rotonda: aspettava il secondo figlio.

«Mamma, Mica ha detto che Katia arriverà presto. Hai preparato le crostate?».

«Certo», risposi. «Le mele, le tue preferite».

Gli anni passarono veloci. Cinzia si laureò, tornò a casa, disse che la vita in città era stretta, ma qui cera aria, pace e radici. Sposò il nostro agricoltore, Roberto, un uomo affidabile. Michele finì luniversità agraria e ora gestisce la fattoria con Luca. Si è sposato con la maestra Laura; hanno già il piccolo Vanni.

«Nonno!», gridò il nipote, scappando verso il cortile.

Luca, tornato dal campo, capelli divenuti argento, lo raccolse e lo fece girare.

«Allora, Vanni, cosa vuoi fare da grande?».

«Diventare conducente di trattore! Come papà e nonno!».

Cinzia e io ci scambiammo un sorriso, ridendo. Il tempo si ripeteva.

Michele arrivò in auto, Laura scese per prima, portando una pentola di minestra.

«Portiamo il tuo piatto preferito, Mica!».

«Grazie, cara».

«E abbiamo una novità!», esclamò Laura. «Aspettiamo dei gemelli!».

Cinzia li abbracciò, Luca sorrise largo.

«Ecco la famiglia! La casa sarà piena!».

A cena tutti si accomodarono al grande tavolo che Luca e Michele avevano costruito qualche anno prima. Cera posto per tutti.

«Ti ricordi quella storia?», disse Michele, pensieroso. «Di quei falsi genitori che hanno presentato la denuncia».

«Come potrei dimenticare», rispose Cinzia. «Il commissario Bianchi ancora la racconta ai giovani».

«E io mi chiedevo: e se fossero davvero i miei genitori? Se dovessi andar via?», continuò Michele. «E ho capito che, anche se fossero, sarei rimasto. La famiglia non è sangue, è tutto questo», indicò il tavolo.

«Non fare il sentimentalone adesso», brontolò Luca, ma gli occhi brillavano.

«Zio Michele, raccontaci di nuovo come siamo stati trovati!», domandò Vanni.

«Di nuovo?!», rise Laura. «Lo sente già cento volte!».

«Allora, racconta!», insistette il bambino.

Michele iniziò la narrazione. Io, seduto, guardavo i miei figli, le nuore, il nipote, Luca, che anno dopo anno diventava più caro a me.

Una volta pensavo di non avere figli. La vita mi ha regalato un dono: due piccoli trovati nellorto, tra i letti di verdura. Ora la casa rimbomba di risate, voci, vita.

«Nonna, quando sarò grande troverò qualcuno nellorto anche io?».

Ridendo tutti, risposi: «Forse lo farai. La vita è fatta di miracoli. Basta tenere il cuore aperto e lamore ti trovi da solo».

Il sole tramontava dietro lorizzonte, tingendo il vecchio melo di rosa, proprio dove tutto era iniziato. Il suo tronco cresceva, come noi. E sapevo che non era la fine. Molti giorni felici ci aspettano, nuovi sorrisi,E così, ogni mattina al risveglio, sento il profumo del pane appena sfornato e il canto dei bambini, sapendo che lamore che abbiamo seminato continuerà a germogliare per generazioni a venire.

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