I nostri tre gemelli sono cresciuti allo stesso modo, fino al giorno in cui uno di loro ha iniziato a dire cose che non avrebbe dovuto sapere. Quando un bambino comincia a raccontare ricordi che nessun altro ha mai vissuto, una famiglia è costretta a mettere in discussione la realtà stessa.
Eravamo soliti scherzare dicendo che ci servivano fiocchi colorati solo per distinguere i nostri tre piccoli. Allinizio era solo una battuta, poi è diventato qualcosa di più. Ogni bambino aveva lo stesso sorriso timido, le stesse manine piccole. Così li riconoscevamo: Matteo con il fiocco blu, Luca con quello rosso, e Enrico con quello verde. Le loro parole spesso si intrecciavano, uno continuava dove laltro si fermava, come se tre voci appartenessero a ununica mente.
Crescerli era come avere unanima sola divisa in tre corpi.
Ma un giorno, quellarmonia si incrinò. Enrico iniziò a svegliarsi piangendo. Non era spaventato dai sogni, ma scosso da ricordiricordi che nessuno di noi aveva mai vissuto.
“Ti ricordi la casa con le persiane rosse?” Non avevamo mai abitato in un posto del genere.
“Dovè la signora Rossi? Aveva sempre caramelle alla menta.” Nessuno con quel nome era mai entrato nelle nostre vite.
“La macchina di papà quella verde con il cofano rotto?” Mi si strinse il cuore. Non avevamo mai avuto unauto del genere.
Allinizio ridevamo, pensando fosse solo fantasia. I bambini inventano mostri, regni e amici dal nulla. Ma le parole di Enrico avevano una strana serietà. Riempiva pagine intere con schizzi di quella casa misteriosa: edera sui mattoni, tulipani allineati con precisione, una porta rossa enorme. Matteo e Luca li ignoravano, ma Enrico sembrava legato a quella visione, come se fosse scritta nel suo cuore.
Una mattina, lo trovai in garage, frugando tra scatole polverose.
“Sto cercando il mio guanto.”
“Ma tu non giochi a baseball,” sussurrai.
“Ci giocavo prima di cadere.”
La sua mano toccò la nuca. Un ricordo di dolore, non un sogno.
Cercammo risposte. Il dottor Bianchi, il loro pediatra, ci consigliò uno specialista in modelli insoliti di memoria. La dottoressa Elena Conti lo accolse con gentilezza.
“Quello che descrive alcuni lo chiamerebbero il ricordo di una vita passata.”
Eravamo scettici, ma iniziammo a cercare. Storia dopo storia, emergevano racconti di bambini che parlavano lingue mai studiate o ricordavano posti in cui non erano mai stati. Un nome ricorreva spesso: la dottoressa Maria Costa.
Durante una telefonata, Enrico parlò piano di un bambinoDanieleche aveva vissuto a Torino ed era morto giovane, per una caduta. Settimane dopo, i documenti confermarono: Daniele Marini, sette anni, Torino, 1987. Apparve una fotografia, e la somiglianza era sconvolgente.
Non condividemmo la nostra paura con Enrico. Invece, lo tenemmo vicino, affrontando in silenzio lo stupore e il dolore. Quella notte, mentre la casa dormiva, io e mia moglie rimanemmo svegli, chiedendoci cosa potesse significare. Al mattino, Enrico sussurrò:
“Credo di aver ricordato abbastanza.”
Da quel momento, i disegni cessarono. I ricordi strani svanirono, sostituiti da giochi, risate e storie che solo un bambino sa inventare. Mesi dopo, arrivò una lettera senza spiegazionidentro, una foto di una casa con una porta rossa, firmata “Signora Rossi.” Enrico la guardò con un piccolo sorriso:
“Qui ho lasciato la mia palla.”
Oggi, a quindici anni, Enrico è calmo e riflessivo. Rare volte parla di quel bambino che una volta descrisse, ma abbiamo imparato una cosa fondamentale: alcuni bambini arrivano con storie già scritte. Il nostro dovere è ascoltare, amare e accettare ciò che non può essere spiegato. Enrico ci ha mostrato che anche i ricordi più strani possono portare pace.