2 gennaio
Mi sento ancora scossa da tutto quello che è successo in questi giorni. Dovrei essere allegra, visto che lanno nuovo è appena iniziato e siamo finalmente alla nostra casetta a Valeggio sul Mincio, ma invece non riesco a smettere di pensare a come ci si debba sempre difendere, anche con chi dovrebbe volerti bene. Forse scrivere mi aiuta a mettere ordine nei pensieri.
Ieri mattina, ero ancora in cucina a lavare le tazze della colazione, quando mi ha telefonato mia cognata Silvia, la sorella di Marco. Già dal tono alto, diretto, il classico modo di parlare delle donne della sua famiglia ho capito che avrebbe preteso qualcosa. Mi ha detto, masticando qualcosa, che loro avevano deciso di venire alla nostra casa di campagna per le vacanze di Capodanno. Tanto voi non ci andate mai, Arianna, è uno spreco! mi ha urlato, aggiungendo che avrebbero portato anche i bambini, e che avrebbero acceso il camino, cucinato la carne, magari invitato qualche amico a passare un po di tempo nella natura.
Mè salita unondata di rabbia. Questa pretesa di disporre della nostra casa come fosse un rifugio pubblico mi ha sempre dato fastidio, e stavolta mi sono proprio sentita messa allangolo. Le ho detto lentamente per evitare che mi tremasse la voce dalla furia che la decisione non spettava a loro. Quella casa, sudata in cinque anni di sacrifici, è nostra. È il sogno di Marco e mio, il nostro spazio di pace lontano dalla frenesia di Verona e dagli strilli dei parenti sempre invadenti.
Ma Silvia non mollava. Rideva al telefono, diceva che con i vostri libri lì vi annoiate, che tanto spazio non si può sprecare, e che se proprio volevamo passare un giorno con loro sarebbe stato anche divertente, anche se sapeva che non era vero.
Ho riagganciato, sfinita. Ma ovviamente la cosa non era finita. Dopo mezzora, Marco è apparso in cucina, con quellespressione tra il colpevole e il bambino che ha appena rotto un vaso. Ma dai, Ari, è famiglia non vorrai farli rimanere male?, ha provato ad abbracciarmi, ma io mi sono scansata: la stanchezza negli occhi diceva già tutto. Gli ho ricordato lo scorso maggio, quando solo due giorni di grigliata in compagnia ci lasciarono una casa devastata: il tappeto del soggiorno bruciato, la tenda della nonna stinta dal fumo di dieci sigarette, la pompa dellacqua otturata e i fiori calpestati dai figli ormai adolescenti di Silvia che non si può più chiamare ragazzate, perché uno ha quasi sedici anni!
Gli ho ricordato tutte le volte che mi sono ritrovata a piangere davanti alle piante rotte o ai ricordi sciupati senza che neanche un scusa arrivasse. Vuoi lasciargli la casa per una settimana senza nessuno che controlli, dinverno, con la neve, con il cane di amici loro? Davvero?, ho chiesto.
Promettono di stare attenti… borbottava Marco, ma sapevo che mentiva anche a sé stesso. Gino, il marito, l’unica cosa che riesce a controllare bene sono le bottiglie, non una casa.
La sera è calata con una tensione pesantissima. Marco si è rifugiato in soggiorno, io ho ripensato a quegli anni di lavori, a come avevamo ristrutturato quellantico casale che era stato dei miei. Ogni risparmio dalla vendita dellappartamento di nonna, ogni sacrificio: niente viaggi, niente vestiti nuovi, solo per quella casa in mezzo ai colli, da sentire nostra. Per loro è solo una villa gratis, per noi è il nido in cui ci rifugiamo.
Nemmeno il tempo di mettere a posto i pensieri che stamattina prima ancora del primo caffè sento il campanello: era mia suocera, la signora Anna Maria, con il suo cappotto di visone, cappellino di lana e borsa della spesa con dentro unorata congelata di due chili che faceva capolino con la coda.
Entra come una regina a corte, saluta appena e mi ordina di mettere su il tè. Marco accorre, visibilmente nervoso. Sua madre si siede a capotavola, il tono da giudice del tribunale popolare: Allora, Arianna, fammi capire perché tratti mia figlia Silvia come una sconosciuta. Ti ha semplicemente chiesto le chiavi per andare al vostro casale, visto che la loro casa è un cantiere, tra polvere e operai ma tu niente. Da te proprio non me laspettavo!. Mentre tagliavo la torta alle mandorle, con le mani che mi tremavano dalla rabbia, ho risposto con calma: Non è un hotel, signora Anna Maria. E se Silvia si trova ancora in mezzo al cantiere dopo cinque anni di lavori non è colpa nostra. Lultima volta che sono stati da noi ci hanno lasciato il fumo fino alle tende del soggiorno e non mi hanno nemmeno detto grazie.
Lì si è sentita ferita, mi ha accusata di essere avara, che da morta non me la porto via la casa e che sto facendo diventare Marco un senza cuore. Lui ha provato a difendermi, ma la madre lo ha messo subito a tacere.
Alla fine, la minaccia è arrivata: Domani mattina Silvia passa a prendere le chiavi. O me le dai, oppure ti pentirai! E ricordati: la ruota gira!. Poi ha sbattuto la porta, lasciando nellaria la scia del suo profumo da signora e del suo risentimento.
Ho guardato Marco. Mi ha chiesto, sottovoce: Non gliele dai vero, Ari?. Gli ho detto che no, questa volta basta: domani mattina si parte allalba e si va noi. Ma i tuoi bilanci e i conti che dovevi chiudere? Li chiudo dopo, la priorità ora è difendere la nostra casa dai barbari. Silvia entrerebbe anche dalla finestra se decidesse che deve. Tu sbrigati a preparare le borse!
Allalba oggi siamo arrivati a Valeggio, con ancora le luci natalizie a salutare le strade vuote di Verona. Fuori il paese era coperto da una coltre di neve che sembrava zucchero. La casa era bella, raccolta, silenziosa. Ho sentito per la prima volta, dopo giorni, un po di pace. Abbiamo scaldato tutte le stanze, addobbato un po per il nostro Capodanno, acceso lalbero. Marco spalava la neve con energia finalmente felice. Io mi sono messa a fare il vin brulé. Per qualche ora, sembrava che la tempesta fosse passata.
Alle tre, però, ecco di nuovo lassalto: due macchine si sono fermate davanti al cancello. Silvia, Gino, i loro figli, una coppia di amici con un rottweiler senza guinzaglio e, ovviamente, Anna Maria elegante e imponente come sempre.
Cominciano a suonare il clacson e a gridare che sono arrivati, che ci faranno compagnia, che sarà più divertente insieme. Silvia urla che i ragazzi devono andare in bagno, la madre minaccia di sentirsi male e Gino ride, con già la voce impastata: Abbiamo portato carne e amarone, non rompete!.
Marco guarda me, io guardo lui. Se apriamo è finita, gli dico. Marco tenta lultimo tentennamento: Ari, sono già qui, che facciamo?. Scegli, Marco: vuoi una settimana di pace con me o il solito casino in cui nessuno rispetta niente?. Silenzio. Lo vedo ricordare tutte le liti per sistemare il portico distrutto, le vasi rotte, le urla. Prende fiato, si avvicina al cancello: Andate via. Questa volta basta. Lavevamo detto. Non siete graditi ospiti quando decidete voi. Gelo.
La madre urla anatemi, Silvia insulta, Gino tenta pure di scavalcare, minaccia di chiamare i carabinieri (sic!) e il cane fa pipì sui miei rododendri. Un teatro dellassurdo.
Alla fine, dopo grida e minacce (Non vedrai mai più questi figli ingrati!, Sei diventato schiavo di tua moglie!), ripartono tutti sbuffando, lasciando solo una scia di polemica e neve sporca.
Finiti. Marco si è seduto sui gradini, avvilito. Non me lo perdoneranno. Invece sì, gli ho sussurrato. Quando avranno bisogno di qualcosa torneranno, vedrai. Intanto adesso hanno capito che questa è casa nostra. Che non si entra senza chiedere, che anche i confini della famiglia vanno rispettati.
Finalmente, la sera, davanti al fuoco, i nostri cuori hanno trovato una tregua. Si sentiva solo il crepitio del camino e il profumo del vin brulé. Nessun telefono, nessun messaggio e va bene così.
Il giorno dopo, un messaggio di Silvia: la foto di un casermone malridotto, bottiglie ovunque, Gino avvinazzato. Stiamo benissimo anche senza di voi, godetevi la solitudine!. Ho guardato la foto, poi Marco che, sereno, dormiva sulla poltrona col romanzo in grembo. Ho sorriso. Nulla da invidiare, davvero.
Rientrati a Verona, dopo una settimana la signora Anna Maria mi ha chiamato per chiedere se Marco poteva accompagnarla a una visita medica. Di casa nessun accenno. La tregua era fatta.
Ho imparato che a volte dobbiamo essere cattivi agli occhi degli altri, per poter essere giusti con noi stessi e custodire la nostra famiglia. Le chiavi della nostra casa ora stanno nel mio portagioie, ben nascoste. E da qui non si muovono più.






