**Il biglietto che mi cambiò la vita**
A sessantadue anni, non avrei mai immaginato di finire a dormire sul divano letto del salotto di mio figlio. Tutta la mia vita, ridotta a due valigie e una borsa a mano. Le carte del divorzio erano ancora calde dalla stampante dell’avvocato quando Matteo, il mio unico figlio, mi offrì quella che chiamò “una soluzione temporanea”. Temporanea. Come se il crollo di un matrimonio di trent’anni fosse solo un fastidio passeggero.
La luce del mattino filtrava attraverso le immacolate tende bianche di sua moglie, Cecilia, disegnando ombre sul pavimento di legno che non potevo calpestare con le scarpe. Ogni regola in quella casa era tacita ma assoluta: non usare gli asciugamani buoni, non toccare il termostato, non cucinare nulla che lasciasse odore. Ero diventata un fantasma, in bilico ai margini di una vita perfetta che non era la mia.
“Mamma, sei sveglia presto,” disse Matteo sulla porta della cucina, già vestito con il suo completo grigio antracite. A trentacinque anni, aveva ereditato la mascella forte di suo padre e la mia caparbietà, anche se sembrava aver dimenticato da dove venisse quest’ultima.
“Non riuscivo a dormire,” risposi, preparando un caffè solubile con l’acqua scaldata nel microonde. La macchinetta del caffè buona era proibita: “È un regalo di nozze,” mi aveva spiegato Cecilia con un sorriso tirato.
Matteo si agitò nervoso, come quando era bambino e doveva confessare qualcosa.
“Cecilia e io abbiamo parlato,” iniziò. “Pensiamo che forse dovresti cercare qualcosa di più… permanente.”
Il caffè divenne amaro in bocca.
“Soluzioni permanenti?”
“Residenze per anziani. Ora hanno programmi eccellenti.”
“Certo,” appoggiai la tazza sul tavolo con più forza del necessario. “Che sciocca da parte mia pensare di poter restare finché non mi rimettessi in piedi.”
“Non fare così. Sai che vogliamo aiutarti.”
“Aiutarmi?” La parola uscì più tagliente del previsto. “Matteo, ieri hai portato la madre di Cecilia a vedere quel nuovo complesso di appartamenti in Via dei Gelsi. Quello con i top di granito.”
Il suo pomo d’Adamo si mosse.
“È diverso. Sua madre ha esigenze specifiche.”
“La mia esigenza specifica è un letto che non sia il tuo divano.”
Cecilia apparve allora, i capelli biondi raccolti in una crocchia perfetta. Si muoveva per la cucina con efficienza studiata, evitando il mio sguardo.
“Buongiorno, Marta,” disse senza alzare gli occhi. L’uso del mio nome per intero era un promemoria costante: io non ero famiglia, ma un’ospite che aveva superato il proprio tempo.
La camera degli ospiti, usata per le scatole, era stata svuotata e dipinta di giallo chiaro la settimana prima, preparata per il loro primo figlio. Cecilia non mostrava ancora la pancia, ma avevano già cominciato a comprare culle.
“Cecilia ha bisogno dello spazio per preparare la stanza del bambino,” spiegò Matteo. “È molto stressata.”
“Non ho mai detto di voler restare lì per sempre. Solo finché non trovo un altro posto.”
Finalmente Cecilia mi guardò, gli occhi verdi freddi e calcolatori.
“Marta, credo che tu non capisca il punto. Si tratta di limiti. Di ciò che è appropriato.”
“Appropriato?” ripetei. “E cosa sarebbe appropriato per una donna il cui marito di trent’anni l’ha scambiata per la sua segretaria?”
“Mamma, no…”
“Matteo, fammi capire. Il tuo figlio non ancora nato ha più bisogno della sua stanza di tua madre senza una casa? È questo?”
Il sangue sparì dal volto di Matteo.
“Non sei senza casa. Hai opzioni. Papà ti ha offerto l’appartamento in Sicilia.”
“Tuo padre mi ha offerto un bilocale a mille chilometri, solo se avessi rinunciato alla metà dei beni. Molto generoso.”
Il rumore del frullatore di Cecilia coprì ogni risposta. Quando il motore si fermò, il silenzio era più pesante.
“Se volevi comodità,” disse Matteo alla fine, a voce bassa, “avresti dovuto restare sposata con papà.”
Le parole mi colpirono come un pugno. Guardai mio figlio, l’uomo che avevo cresciuto, nutrito e amato senza condizioni, e vidi un estraneo.
“Capisco,” dissi, lasciando la tazza nel lavandino. “Grazie per avermi chiarito il mio posto qui.”
Passai la giornata a cercare affitti sul telefono, ricalcolando i miei risparmi miseri. Avevo esattamente ottocentoquarantasette euro sul conto. A sessantadue anni, senza lavoro e senza credito, era come avere ottanta centesimi.
Quella sera uscii al tabaccaio all’angolo. Alla cassa, fissai la vetrina dei gratta e vinci. Il SuperEnalotto era a trecento milioni. Sentii me stessa dire:
“Un quick pick, per favore.”
Il signor Rossi inserì il biglietto nella macchina. Uscì un rettangolo di carta: 7, 14, 23, 31, 42. Jolly 18.
“Buona fortuna,” mi disse, dandomi il resto. Otto euro. Tutto ciò che mi restava.
L’appartamento era vuoto quando tornai. Un biglietto sul piano cucina: Matteo e Cecilia erano andati a cena da sua madre. Naturalmente. Mi sistemai sul divano e accesi il telegiornale.
Alle 23:17, i numeri del SuperEnalotto apparvero sullo schermo.
7, 14, 23, 31, 42. Jolly 18.
Rimasi a fissare la televisione, convinta di avere le allucinazioni. Tirai fuori il biglietto con mani tremanti e confrontai i numeri più e più volte. Tutti corrispondevano. Il biglietto cadde a terra mentre mi lasciavo andare sui cuscini. Trecento milioni di euro. Dopo le tasse, abbastanza per non dover più dormire sul divano di nessuno. Abbastanza per guardare mio figlio negli occhi e dirgli esattamente cosa pensavo del suo “amore duro”.
La domanda non era cosa avrei fatto con i soldi. La domanda era cosa avrei fatto con il potere.
**Capitolo 2: Il giorno dopo**
Dormii poco quella notte. Ogni volta che chiudevo gli occhi, vedevo i numeri ballare nel buio. Mi alzai prima dell’alba, con il cuore a mille. Misi il biglietto in una scatola di biscotti vuota, nascosta in fondo alla valigia.
Matteo e Cecilia tornarono a metà mattina. Matteo sembrava stanco, Cecilia radiosa, come sempre.
“Hai dormito bene, mamma?” chiese Matteo, senza guardarmi.
“Sì,” mentii.
Passai la mattina fingendo normalità. Lavai i piatti, piegai le coperte, evitai la cucina mentre Cecilia preparava il suo frullato proteico. Tutto era routine, ma ogni gesto aveva un nuovo significato. Ora avevo un segreto.
Alle dieci in punto, chiamai il numero del SuperEnalotto. Mi spiegarono i passi da seguire. Dovevo presentarmi all’ufficio principale, con un documento e il biglietto originale. Mi consigliarono di portare un avvocato.
Non avevo un avvocato. Né un’auto. Né qualcuno da chiamare. Ma avevo il biglietto.
Aspettai che Matteo uscisse per lavoro e Cecilia si chiudesse nel suo studio yoga. Misi i miei vestiti nelle valigie, infilai il biglietto nella tasca interna del cappotto e