Il Destino Svelato

Era fine maggio, ma il caldo estivo si era già impossessato della città da due settimane. Caterina salì sull’autobus e subito se ne pentì. Ora di punta, gente ovunque, stretta, afa. Venne schiacciata da ogni lato e il vestito si appiccicò alla pelle sudata. Qualcuno le diede una gomitata nella schiena.

“Fatti avanti, dobbiamo tutti andare da qualche parte. E a certe come te farebbe bene camminare, occupi troppo spazio,” borbottò una voce vecchiotta dietro di lei.

“Neanche tu sei una bacchetta, eh? Spostati!” gracchiò una voce maschile, e il peso che le piombò addosso le tolse il fiato.

“Ohi, mi stai schiacciando, maledetto!” strillò una donna dietro di lei.

Le porte si chiusero con un colpo secco e l’autobus partì. Dietro Caterina, la donna e l’uomo dalla voce roca continuavano a spintonarsi e litigare.

“Che problema hai, vecchia strega?”

“Tu stai zitto. Già non si respira, e poi puzzi di alcol!” ribatté la donna senza esitazione.

Caterina non riusciva a vederli, non poteva nemmeno girarsi senza sbattere il naso contro una spalla. Nemmeno afferrare una maniglia era possibile, schiacciata com’era.

L’autobus procedeva a scatti, frenando e accelerando bruscamente. I passeggeri venivano sballottati come cetrioli in un barattolo, rimanendo in piedi solo grazie alla ressa. Dai finestrini aperti entrava un filo d’aria, ma appena l’autobus si fermava al semaforo, ricominciavano i litigi.

Caterina non partecipava, stringeva i denti e sognava di scendere, di respirare, di tornare a casa, togliersi i vestiti umidi e farsi una doccia fresca. L’autobus ripartì, facendo oscillare tutti.

“Ehi, autista, piano! Non siamo sacchi di patate!” urlò l’uomo roco. “Tu stai lì col ventilatore acceso, e noi qui a cuocere…”

L’autobus frenò di nuovo per la fermata.

“Passa oltre, non ci sta più nessuno! Ci schiacciamo vivi!” gridò l’uomo. “Scende qualcuno?”

“Io! Io scendo! Aprite!” urlò Caterina, non reggendo più il caldo e la folla.

Le porte si aprirono a fatica, lasciando uscire prima la donna, poi l’uomo, e infine Caterina. L’ultimo colpo fu un pugno della donna sulla sua spalla.

“Mucca! Solo per una fermata, hai riempito l’autobus!”

Caterina non fece in tempo a rispondere. La donna si infilò tra la folla, le porte si chiusero e l’autobus partì. Decise di continuare a piedi, ingoiando le lacrime. Nelle orecchie le risuonava ancora quell’odiosa voce: “Mucca!”

“Mucca,” “ippopotamo,” “mammut”… glielo dicevano già a scuola. Avrebbe dovuto abituarsi, ma non ci riusciva. Era colpa sua se era nata robusta? I medici non avevano mai trovato nulla di strano.

“Mamma, perché mi hai fatta così grassa? Chi mi vorrà mai?” piangeva tornando da scuola. “Sceglievi un uomo magro, e io sarei stata snella come te. Invece ora devo soffrire per sempre.”

“Non sei grassa, sei formosa. Il cuore non si comanda. Mi sono innamorata di tuo padre, un omone forte e bello, tutte lo guardavano. Tu sei come lui. Vediamo chi sposerai tu,” si arrabbiava la mamma.

“Io non sposerò nessuno. Chi potrebbe amarmi così?” singhiozzava Caterina.

“Ti ameranno, non preoccuparti. Non tutti gli uomini vogliono donne scheletriche. E poi tante magre ingrassano dopo i figli,” cercava di consolarla la mamma.

Caterina provò le diete, digiunò, ma non resisteva. Il corpo chiedeva cibo. Provò anche a correre al mattino. Le ragazze snelle come gazzelle la guardavano e sghignazzavano.

“Ah, ecco perché il marciapiede è così scivolato! È il grasso che cola…” disse un ragazzo alla sua ragazza, passandole accanto.

Smise di correre, abbandonò le diete e gli esercizi, ignorò il suo aspetto ed evitò gli specchi.

Poi la mamma si ammalò gravemente. Nemmeno allora, tra ansia e dolore, Caterina perse peso. Non dimagrì neanche dopo il funerale, anche se per giorni quasi non mangiò.

Aveva ormai trentatré anni, e nessun amore, famiglia o gioia all’orizzonte.

“Niente più autobus,” decise Caterina. “Andrò a piedi.”

Ma il giorno dopo, alla fermata, arrivò un autobus quasi vuoto. Capita. Salì, prese la tessera per convalidare il biglietto, quando l’autobus partì di scatto. Non fece in tempo ad aggrapparsi e venne sbilanciata all’indietro.

“Sto per cadere e rompermi la testa…” pensò.

***

Mattteo

Quella mattina Matteo salì in macchina come sempre, girò la chiave, ma la macchina non partì. Passò cinque minuti a tentare inutilmente. Allora chiamò il carro attrezzi e la portò dal suo amico meccanico.

Arrivò al lavoro in taxi, in ritardo. Non aveva fretta di tornare a casa, nessuno lo aspettava, e decise di fare due passi. Ma alla fermata vide un autobus semivuoto. Non ricordava l’ultima volta che aveva usato i mezzi. Decise di approfittarne. L’autobus 24 andava proprio verso l’officina, così avrebbe saputo della macchina. Senza pensarci, salì.

Poi ripensò spesso a quel giorno, convinto che nulla fosse casuale. Per volontà del destino, la macchina si era rotta, lui aveva preso l’autobus e non era andato a casa, ma dall’officina—anche se avrebbe potuto chiamare. Ma andò così, e la sua vita cambiò.

Si era sposato con una donna bellissima, follemente innamorato. Era orgoglioso quando gli uomini guardavano Elena con ammirazione e lui con invidia. Elena era perfetta come una statua. Ma purtroppo, altrettanto fredda. Il disincanto arrivò presto. Elena non amava nessuno, solo se stessa e il suo corpo.

Si interessava solo a nuove diete, dimagriva ancora, anche se già magra. Matteo pensava che avrebbe avuto bisogno di qualche chilo in più per sembrare più femminile.

Mangiava poco, solo insalate. Presto Matteo capì che con quell’erba sarebbe morto e chiese della carne.

“Non lamentarti. Anche un uomo deve curarsi. A pranzo mangi schifezze, ti basta. E la cena deve essere leggera. Se ingrassi, smetterò di amarti,” diceva Elena.

Sognava spesso di addentare una bistecca succulenta, gemendo nel sonno. Quando non ce la faceva più, andava a cena dalla mamma. Lei sospirava, vedendolo dimagrito, e lo riempiva di cibo. Brontolava perché aveva scelto una bella moglie ma incapace in cucina.

“E i figli li nutrirai d’erba? Non ha neanche la forza per portarne uno. Trovati una donna normale, che cucini torte e minestre,” sospirava la mamma.

A Matteo i piatti robusti piacevano, ma amava Elena. Tornava a casa sazio, e lei non gli parlava per giorni, considerandolo un traditore. Capì che se voleva sopravvivere, doveva imparare a cucinare.

Elena non voleva figli.

“HoE quando Caterina lo vide aspettarla alla fermata con un mazzo di fiori e un sorriso timido, capì che finalmente il destino le aveva mandato l’uomo che l’avrebbe amata per com’era, non per come avrebbe dovuto essere.

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